Male assoluto,
male relativo
“La disparition de Joseph Mengele”, di Olivier Guez (2017, edizione italiana 2018, dal titolo “La scomparsa di Josef Mengele”) oltre ad essere un capolavoro di romanzo quale involucro ideale dove convogliare una pergamena perché giunga a noi senza lacune di sorta, ci trascina verso l’Argentina dei tempi di “Gilda” con Glenn Ford e Rita Hayworth, indi ci fa attraversare gli incubi paraguaiani, per poi far calare il sipario negli anfratti più squallidi del Brasile.
La mera indignazione cui si presta la lettura di questo piccolo capolavoro si rivelerebbe un esercizio frustrante per la sua vacuità, risolta in una sostanziale beffa verso le vittime, perché la sola denuncia del peggior essere umano che abbia calpestato la terra non può essere disgiunta dalla riflessione sul male attorno a lui, senza il quale costui sarebbe rimasto, semplicemente, come uno dei tanti malfattori, la cui sinistra potenzialità sarebbe rimasta però circoscritta dall’ambiente in cui è inserito.
Per questa ragione, sembrerebbe preferibile azzardare una riflessione sull’animo umano, nel duplice versante del male che in noi possa albergare e nell’ipocrisia che porta a scartare dalla nostra visione tutto ciò che urti la nostra convenienza. Perché, in qualche modo, la storia del male, anche di quello inenarrabile, finirebbe per essere la storia dell’umanità e le miserie infinite di Mengele finirebbero per rivelarsi come le miserie dell’umanità, laddove si proiettano in seno a scenari in cui l’atrocità non attira l’attenzione. In tal senso, non è privo di significato il fatto che, dopo qualche anno di soggiorno in Argentina, Mengele fosse tornato ad assumere il proprio nome e addirittura a contrarre matrimonio in Uruguay, lasciando traccia negli atti di stato civile della propria identità.
Il male assoluto, però, non può essere lo strumento per scagionare quello, diciamo, relativo: se il medico di Auschwitz fece impallidire i diavoli, questa disinvolta constatazione non può alleggerire il carico di meschinità di cui sovente ci si macchia. Il male oltre le parole non può redimere quello che le parole le usa, perché altrimenti finirebbe per svolgere una funzione, e questo sarebbe imperdonabile.
Sono i peccati di ciascuno e la tolleranza che ne deriva a lastricare la strada dei crimini supremi? È lecito chiedersi se noi ebrei, così diffamati ovunque, dobbiamo (anche!) farci carico del male del mondo, quale insolita testimonianza, oppure se si debbano cercare sponde, nella ricerca dell’onestà intellettuale. Guez scrive “la storia diventa teatro”; possiamo assumerci il compito di sceverare realtà è fantasia? Dopo aver guardato il mondo, possiamo assumerci il compito di guardare dentro noi stessi? Abbiamo assolto i nostri doveri nei riguardi delle vittime?
Mengele non si è confrontato con i superstiti di Auschwitz in un’aula di Tribunale, perché né la Germania né gli USA se ne sono interessati e Israele, che doveva pensare a salvarsi la vita, non aveva i mezzi per impegnarsi su più fronti.
Anche oggi, gran parte degli attentatori che uccidono degli ebrei, Roma compresa, sono rimasti impuniti. Se non possiamo fare più di tanto, qualche cosa, però, è alla nostra portata: una riflessione onesta sul male nella specie umana, basata sull’architettura ideale dei nostri principi religiosi.
Emanuele Calò, giurista
(8 gennaio 2019)