Una strada diversa
“E quando uno straniero faccia dimora con voi nel vostro paese, non dovete fargli sopruso. Lo straniero dimorante con voi dev’essere per voi uguale ad un vostro indigeno, ed amerai per lui quel che ami per te; perché (anche voi) siete stati stranieri nella terra d’Egitto. Sono Io, il Signore, Dio vostro.” (Levitico, 19, 33-34).
Il significato profondo di questo celebre passo della parashà di Kedoshim risiede nel radicare la genesi, il senso stesso dell’accoglienza e dell’aiuto fornito al forestiero nell’immedesimazione. Solo facendo propria la condizione di disorientamento, solitudine, mancanza di mezzi e diritti di chi giunge estraneo in terra straniera dopo lunghe peregrinazioni è possibile cogliere consapevolmente la sua necessità di appoggio a tutti i livelli; e dunque valutare adeguatamente l’esigenza insieme materiale, morale, giuridica, sociale di una legislazione equilibrata ed equa, che permetta a chi è nuovo ad una determinata società di vivere e ambientarsi in essa collaborando alla sua crescita, e che consenta nel contempo a quel nucleo già sviluppato di assorbire, amalgamare produttivamente le differenze prodottesi al suo interno. Proprio questa volontà di sopperire ai bisogni dello straniero integrandolo nella realtà sociale esistente mi pare la caratteristica centrale della risposta ebraica al problema immigrazione. Una risposta in cui, su una forte base etica di solidarietà, gli aspetti economici, sociali e giuridici riescono a fondersi e a interagire.
Esattamente il contrario di quanto pare di leggere nel recente e già contestatissimo Decreto sicurezza approvato dal Parlamento italiano, ormai a tutti gli effetti Legge operante: un provvedimento finalizzato alla non-accoglienza, allo sradicamento, all’espulsione più rapida e agevole possibile, indirizzato di fatto a evitare che persone provenienti da luoghi tormentati con vicende laceranti alle spalle possano trovare un barlume di futuro nel nostro paese. A confermare questa impressione bastano l’annullamento del diritto di rifugio per motivi umanitari, o l’impossibilità di ottenere la residenza sulla base del regolare permesso di soggiorno. Una affermazione auto-evidente di spietatezza e di degrado morale.
Ma anche al di là dell’irrinunciabile giudizio etico, l’ideologia sottesa a questo rifiuto, quella delle porte chiuse, del paese blindato, del sovranismo populistico (con radici nazionaliste) che trova espressione nell’egoistica formula “prima gli italiani” è di fatto cieca: masse ingenti si muovono oggi inesorabilmente attraverso i continenti, ogni chiusura totale è irrealizzabile; è del tutto impolitica: solo la mediazione con le situazioni di fatto, la capacità di assorbire le trasformazioni in corso è vera gestione politica; è nel fondo pericolosa: eliminare la possibilità di accogliere e ospitare persone etichettate a priori (non solo dal pregiudizio comune, ma dal Ministro degli Interni) come delinquenti e profittatori porterà qualcuno a vaneggiare di “purificazione” demografica o di evitato “imbastardimento”, fomenterà fatalmente il razzismo, già in forte, allarmante crescita negli ultimi mesi.
L’ebraismo insegna una strada diversa, in cui l’etica individuale e collettiva diviene strada per la convivenza sociale, percorso per il superamento politico delle conflittualità, articolazione giuridica volta a regolamentare i rapporti interpersonali e capace di rafforzare la struttura dello Stato di diritto.
David Sorani
(8 gennaio 2019)