Peccato di omissione
Nell’approssimarsi dell’annuale ricorrenza del Giorno della Memoria, si ripropongono, come ogni anno, vecchie e nuove domande non solo sul passato da ricordare, ma anche sulla nostra attualità, su quale sia il senso del nostro presente, del nostro operare oggi, della nostra capacità di costruire, di progettare qualcosa per il futuro.
I rischi, incombenti su tutto il mondo di oggi, sono ben noti, e tante volte segnalati: la recrudescenza, dovunque, di forme vecchie e nuove di antisemitismo; la banalizzazione o la rimozione della memoria; l’avanzata, in tutti i continenti, di potenti movimenti populisti, che, pur senza apertamente dichiarare di voler cancellare la democrazia, ne realizzano di fatto evidenti erosioni dall’interno, svuotandola, giorno dopo di giorno, dei suoi valori fondanti; il montare, dovunque, di forme sempre più esplicite di intolleranza, razzismo, violenza, xenofobia, misoginia, omofobia e altro, all’insegna di dilaganti sentimenti di egoismo, paura, disprezzo; la triste parabola involutiva che attraversa alcuni Paesi – come quelli dell’Est europeo -, i cui cambiamenti politici, trent’anni fa, ci avevano fatto tanto sperare. Eccetera eccetera.
Tanto pessimismo, dunque, come al solito. E, ancora più, tanta incertezza. Il futuro, come categoria ideologica e mentale, sembra dileguato, sparito. Perfino i baldanzosi vincitori di oggi non ne parlano mai, non promettono niente che vada al di là del mero dileggio dei nemici sconfitti, o del blandire le masse concedendo loro qualcosa che possa appagarle qui e ora: un po’ di soldi in più, qualche straniero in meno, l’illusione di un po’ più di sicurezza. La domanda di quale mondo si voglia costruire per i figli e nipoti è bandita, affidata a quella che il presidente Mattarella, nel suo bel discorso di Capodanno, ha definito la presunta “retorica dei buoni sentimenti”.
In tale triste scenario, sempre maggiore valore assume il compito della cultura, del pensiero, della meditazione su quello che è stato il nostro passato, su cosa ci abbia portato ai giorni di oggi, su quali siano le fondamenta di un possibile domani. Solo questo ci potrà salvare, quando avremo perso anche questo saremo davvero perduti.
È all’interno di questa considerazione che segnalo un libro, di recente pubblicazione, che può rappresentare una piccola, preziosa bussola, un minuscolo, fermo faro per la nostra buia navigazione, e che, al di là dell’intensità e della problematicità dei temi affrontati, si legge come un romanzo, per la limpidezza della scrittura, e per la capacità di avvincere il lettore, coinvolgendolo in una comune ricerca di senso. Un grande romanzo sul lascito del secolo, grande e terribile, che ci ha preceduto, del quale molti punti essenziali vengono ripercorsi con un taglio decisamente originale e innovativo. Il titolo è L’umano al tempo del disumano. Percorsi dell’ebraismo europeo del Novecento (ed. Lithos), e autrice Emilia D’Antuono, tra i più eminenti filosofi e bioeticisti contemporanei, ma, soprattutto, instancabile paladina della funzione educativa della memoria, così come di quella memoriale dell’educazione: ricordare, per Emilia, vuol dire comunicare, trasmettere significato, e viceversa, ed entrambe le cose – memoria e insegnamento – hanno un’intrinseca, ineliminabile valenza etica.
In questo grande, drammatico e avvincente affresco, i grandi tessitori del pensiero ebraico del secolo scorso – da Rosenzweig a Levinas, da Arendt a Bloch, dai fratelli Sereni a Primo Levi – si stagliano non solo come edificatori delle nuove categorie ideologiche del mondo contemporaneo, ma anche come protagonisti di una lunga epopea, di un sofferto, millenario cammino – le cui remote origini la D’Antuono va a cercare tanto nelle Sacre Scritture quanto nella mitologia greca – alla ricerca del senso di parole come ‘libertà’, ‘giustizia’, ‘morale’, ‘dignità’.
Nell’impossibilità di dare contezza della grande complessità e varietà dei temi affrontati nel volume, ci limitiamo a segnalare la lucida analisi, offerta dalla D’Antuono, del pensiero di Hanna Arendt (autrice controversa, e di cui tante volte viene offerta una lettura banalizzante e superficiale).
Che rapporto ha avuto il nazismo con quella tradizione occidentale in cui esso è nato? “Il nazionalsocialismo – scrive la pensatrice, nel 1945 – non si deve a nessuna componente della cultura occidentale, che si tratti di quella tedesca, di quella cattolica, di quella protestante, di quella cristiana, di quella greca o romana. […] Da un punto di vista ideologico, il nazismo inizia senza nessun fondamento nella tradizione e sarebbe molto meglio riconoscere il pericolo proprio in tale assoluta negazione di ogni tradizione, che sin dall’inizio fu la caratteristica principale del nazismo (a differenza del fascismo italiano)”. Parole che appaiono, per il loro tono apodittico e, per certi versi, assolutorio, discutibili, e che la stessa Arendt, in una lettera del 1951 a Karl Jaspers, provvede a meglio puntualizzare, comunicando il suo “sospetto che la filosofia non sia innocente e monda di ogni macchia” per quanto accaduto nell’ora più buia.
Questa “mancanza di innocenza”, questa “macchia opaca e rimossa” sarebbe da cercare, secondo la D’Antuono, essenzialmente in un “peccato di omissione”: “L’omissione è nel mancato approfondimento della portata della libertà e della pluralità come contrassegni dell’uomo di per sé inalienabili, se non al prezzo di disintegrazione dell’umano”.
Non solo una esplicita negazione, quindi, ma anche un mero “mancato approfondimento” dei valori di “libertà” e “pluralità” può portare, ieri come oggi, alla disintegrazione dell’umano. Parole di forte pregnanza, e di grande attualità, su cui siamo chiamati, oggi e sempre, a riflettere.
Francesco Lucrezi, storico