La crisi dell’Unesco
La decisione degli Stati Uniti e dello Stato d’Israele di abbandonare l’Unesco (United Nations Organization for Education, Science and Culture) costituisce una scelta dolorosa ma inevitabile. Dolorosa, perché il patrimonio culturale dell’umanità è per sua natura universale e il venir meno di questa universalità – soprattutto se riguarda due Paesi che nella conservazione e nella valorizzazione di questo patrimonio sono all’avanguardia – non può essere accolta con gioia. Ma è una decisone inevitabile a causa dell’uso strumentale e propagandistico che dell’Unesco hanno fatto i Paesi islamici, e anche dell’ignavia dimostrata dalla maggioranza dei Paesi europei che quell’uso hanno accettato e anche favorito.
Una delle risoluzioni che maggiormente ha offeso il senso comune – e verrebbe da dire il comune senso del pudore – fu quella assunta il 26 ottobre 2016, nella quale si negò il legame tra la tradizione e l’identità ebraica e la città di Gerusalemme, imponendo l’uso dei soli nomi arabi. La stessa risoluzione fu ribadita il 1° maggio 2017. Fu una decisione che mise in evidenza fino a che punto poteva spingersi l’impudenza di chi la propose e di chi la sostenne, come se la storia e l’archeologia potessero essere messe ai voti e negate a maggioranza. E’ da ricordare che in quell’occasione l’Italia espresse un voto contrario, rompendo una lunga consuetudine di astensione condivisa con gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Ma quella decisione fu solo la punta di un iceberg purtroppo assai profondo, non solo, ma che si spinge anche assai lontano nel tempo. Già il 23 novembre 1974 Israele venne escluso dai finanziamenti dell’Unesco con l’accusa di razzismo, un’accusa che precedette e preparò la Risoluzione n. 3379 del 10 novembre 1975 dell’Assemblea generale dell’ONU che condannò il sionismo come una forma di razzismo. Quanto fossero strumentali e di natura puramente demagogica queste condanne lo dimostra il fatto che la Risoluzione venne abrogata il 16 dicembre 1991, quando erano in corso le prime trattative che portarono agli accordi di Oslo. Senza voler elencare tutte le decisioni ostili allo Stato d’Israele prese dall’Unesco, non si può fare a meno di riandare con la memoria alla scandalosa Conferenza mondiale sul razzismo tenuta a Durban, in Sudafrica, dal 28 agosto al 7 settembre 2001 (alla vigilia, quindi, dell’attacco alle Due Torri di New York), dove, in un’atmosfera carica d’odio, si scatenò quanto di peggio l’antisemitismo promosso dai Paesi islamici poteva produrre.
Resta adesso da vedere, dopo la decisione di Stati Uniti e Israele, quale sarà il comportamento di altri Paesi, compreso il nostro, che a parole hanno proclamato la loro vicinanza allo Stato d’Israele.
Ma quella dell’Unesco è solo una delle criticità che caratterizzano le agenzie dell’ONU. Si pensi all’Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR), dove le posizioni direttive sono occupate da persone provenienti da Paesi che si caratterizzano per lo scarsissimo rispetto dei diritti umani stessi. O l’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR), che ha adottato la singolare regola dell’ereditarietà della posizione di rifugiato per i palestinesi. La stessa Assemblea generale delle Nazioni Unite approva risoluzioni con il voto di Stati che sono tali solo di nome: isolette dei Caraibi o del Pacifico, che contano al massimo qualche migliaio di abitanti, Per non parlare della garanzia di democraticità che dovrebbe caratterizzare i Paesi aderenti all’ONU, secondo lo statuto approvato a San Francisco il 24 ottobre 1945.
Nonostante tutti i suoi limiti, l’ONU resta una tribuna dove si svolgono incontri che, in alcuni casi, possono essere utili per la ricerca della pace. Ma è necessaria una profonda riforma di questa istituzione, riforma di cui si parla da anni senza arrivare ad alcuna decisione. Per esempio, se le decisioni fondamentali sono affidate al Consiglio di Sicurezza, c’è da chiedersi quale è il senso delle inutili votazioni dell’Assemblea generale, che non hanno alcuna efficacia concreta, e servono solo da cassa di risonanza propagandistica per le campagne più discutibili, a cominciare da quelle contro Israele.
Valentino Baldacci