Machshevet Israel – Sul tradimento (e sulla fedeltà)
Non voglio scrivere l’ennesimo panegirico sullo scrittore israeliano Amos Oz. Non ne ha bisogno. Propongo invece di riflettere su una litote, ripetutamente usata in molti encomi a lui dedicati e persino dal presidente dello Stato di Israele Reuven Rivlin: “Non è stato un traditore, sebbene i suoi avversari politici lo abbiano accusato di tradimento”. Non ha tradito né la causa sionista né i valori dell’ebraismo quando ha difeso i diritti dei palestinesi o è andato a raccogliere olive con loro su terreni confiscati o ha inviato i suoi libri ai ‘nemici di Israele’ condannati e incarcerati. La sua filosofia politica è ben espressa dall’idea che proprio con i nemici occorre dialogare; e insisteva: con i nemici non dobbiamo farci l’amore, ma la pace; e la pace non scaturisce dai buoni sentimenti ma dal compromesso; è comunque più pericoloso un fanatico (a qualsiasi causa asservito) che un nemico politico. E’ un approccio a suo modo realista e pragmatico, forse opinabile ma degno di rispetto. Nondimeno, l’ombra di quell’accusa è destinata ad accompagnarne la fama di storyteller e di intellettuale engagè. Ma cos’è, davvero, il tradimento? Cosa significa essere traditore? Il tema lo affascinava, almeno a giudicare dal fatto che attorno alla figura del più noto, supposto e mai verificato, traditore della cultura occidentale – la figura di Giuda, guarda caso un ebreo che ne avrebbe tradito un altro – Amos Oz ci ha scritto un romanzo intenso e complesso (intitolato appunto Giuda, edito nel 2014 da Feltrinelli ed ambientato in una notturna Gerusalemme kafkiana), che è al contempo una riflessione sui diversi sionismi dei primi decenni del XX secolo, dove le accusa di tradimento della causa erano non meno frequenti di oggi. Allora, ‘chi tradisce chi’ quando si entra nell’agone dei fatti storici e delle loro interpretazioni?
Ben prima di Oz e dei conflitti tra le diverse correnti del sionismo, l’infame accusa è stata scagliata contro personaggi biblici e post-biblici: contro Geremia, accusato di aver disertato per consegnarsi ai babilonesi; contro Giuseppe Hacohen (divenuto Tito Giuseppe Flavio), che avrebbe capitolato senza combattere per passare tra le fila dei romani; e persino contro Jochanan ben Zakkaj che, stando alla leggenda, abbandonò una Gerusalemme assediata nascondendosi in una bara. Ma perché Geremia è poi finito nel Tanakh mentre su Giuseppe Flavio è caduta, almeno nella tradizione ebraica, una damnatio memoriae? E che dire del caso di Ben Zakkaj, senza il cui supposto tradimento non vi sarebbe stato quel giudaismo rabbinico di cui tutti siamo figli? Su queste difficili domande riflette in cerca di possibili risposte il filosofo Avishai Margalit nel libro Sul tradimento (Einaudi 2017). Qui scopriamo che Giuseppe, proprio ispirato da Geremia, “si considerava un profeta, capace di avere un accesso diretto alla storia nel suo senso metafisico, ed era convinto che quest’ultima lo avrebbe scagionato” dalle accuse dei suoi contemporanei; e che Geremia non agisce né parla da storico ma da testimone morale, e solo a questo titolo viene riconosciuto profeta; e che il tradimento di Ben Zakkaj è stato il prezzo da pagare alla sopravvivenza del giudaismo stesso: un tradimento in nome della fedeltà, non ultimo dei paradossi della storia ebraica.
Ma in fondo, si chiede Margalit, la Bibbia (ebraica) non è una collezione di storie tutte legate alla dialettica tradimento-fedeltà? Non hanno i profeti usato l’immagine dell’adulterio per indicare l’infedeltà di Israele verso Dio ossia per stigmatizzare l’idolatria? “I profeti della Bibbia non sono storici; quello che li preoccupa è l’idolatria ovvero il tradimento. La loro campagna rivolta contro l’idolatria è iniziata, secondo Geremia, con l’esodo: ‘Da quando i vostri padri sono usciti dall’Egitto fino ad oggi, io vi ho inviato con assidua premura i miei servi, i profeti’ (Ger 7,25). Al cuore dell’idolatria si trovano l’oblio e l’ingratitudine; pertanto combattendo l’oblio i profeti combattono l’idolatria. In questo modo divennero, per così dire, i sommi sacerdoti della memoria”. Sono soprattutto i re e i leader religiosi a essere giudicati dai profeti in termini di fedeltà o tradimento della memoria, dell’alleanza e della legge divina. E’ soprattutto il potere (chi lo esercita) che è soggetto alla tentazione idolatrica. Non è un caso che la parola ‘teocrazia’ sia stata coniata da Giuseppe Flavio proprio per esorcizzare dalla sacralizzazione della politica ovvero da ogni teologizzazione del potere, sia esso ebraico, romano o babilonese. Torna l’ossimoro del tradimento fedele: quando è il caso, occorre tradire per preservarsi integri. Ma chi stabilisce quando è il caso? Il tribunale della storia? E chi sentenzia in questo tribunale? Sembra un circolo vizioso. Perciò meglio essere ‘cauti nel giudizio’, come insegnano i Pirqè avot (I,1 e I,9). Tra giudice e accusato sta sempre il testimone, e la saggezza rabbinica afferma: un testimone solo non basta a condannare; quando poi due testimoni si contraddicono, la loro testimonianza è nulla… Verifica, cautela e, nel dubbio, sospensione del giudizio.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI