Società – I ricchi, i poveri, gli ebrei
Quando si parla degli ebrei, tanto nei discorsi comuni quanto in quelli degli studiosi si ritrova, e questo colpisce già abbastanza, una continuità e una relativa omogeneità dello stereotipo che vede gli ebrei come ricchi, al di là dell’evidenza storica o dell’esperienza. Sebbene una lunga serie di descrizioni della miseria degli shtetl o dei quartieri ebraici in Nord Africa, o dell’oscurità e della degradazione del ghetto di Roma sia, almeno a partire dal XIX secolo, lo sfondo di moltissimi romanzi, racconti di viaggi e descrizioni più o meno storiche, sebbene gli storici abbiano più volte ricostruito la complessità delle società ebraiche nelle diverse storie di cui gli ebrei erano protagonisti, l’immagine secolare dell’ebreo plutocrate e della naturale associazione degli ebrei alla ricchezza si afferma oggi come in passato ai più diversi livelli discorsivi, negando la realtà quotidiana visibile e le testimonianze che vengono dal passato. Il peso di questa contraddizione, a volte inavvertita o sottovalutata dagli ebrei colti che si sforzano di celebrare il contributo degli ebrei al progresso economico del mondo occidentale, spesso introiettata dagli ebrei giorno dopo giorno, ha prodotto curiose conseguenze. Effettivamente, se da un lato la storiografia antiebraica o antisemita tra il XIX e il XX secolo, fino al Die Judenunddas Wirtschaftsleben di Sombart del 1911, ha spesso rappresentato gli ebrei come soggetto collettivo vago e dalla volontà non facilmente distinguibile, vista la sua favolosa ricchezza e la sua abilità non meno prodigiosa di avere a che fare con i numeri e il denaro e di far nascere il capitalismo finanziario e industriale, dall’altro tutta una cultura economica ebraica askenazita legata soprattutto alla Wissenschaft des Judentums e ben rappresentata dalle tre notevoli opere scritte tra il 1906 e il 1930 da Ignaz Schiper, puntava a riconoscere come valida e fondata l’immagine degli ebrei visti come gruppo la cui importanza storica e, per così dire, il significato razionale dal punto di vista di una storia del progresso europeo era stata riassunta dalla ricchezza e dalla capacità imprenditoriale. In tal senso, la povertà e più in generale la molteplicità degli stati sociali ed economici che, dal medioevo all’età moderna, avevano caratterizzato la vita quotidiana delle comunità e dei gruppi ebraici nell’Europa cristiana o islamica sparivano in una foschia neo-hegeliana che fissava la storia ebraica nell’immagine caricaturale di una ricchezza più o meno funzionale al progresso della civiltà occidentale. Il finto problema dell’utilità o inutilità degli ebrei per l’Europa, un’ossessione tipica tra il XIX e il XX secolo sia della cultura e della politica antiebraica che del pensiero assimilazionista ebraico, ha determinato paradossalmente, oltre che un consolidamento dello stereotipo della potenza economica ebraica, l’eliminazione dal contesto discorsivo della rappresentazione della povertà economica dei veri ebrei. Un aspetto tipico del processo di razionalizzazione economica europeo, ovvero la preoccupazione per i nemici più o meno evidenti del progresso e della crescita del Corpo economico cristiano, ha giocato verosimilmente un ruolo fondamentale nella formazione dello stereotipo della ricchezza degli ebrei, ma anche nello sforzo che la cultura ebraica ha fatto tra il XIX e il XX secolo per ribaltare questo stereotipo in un’ottica positiva. L’esistenza di una povertà ebraica negava visibilmente sia l’immagine mitica della ricchezza degli ebrei come una malattia pericolosa per la sanità economica della società dei cristiani, sia l’immagine apologetica della ricchezza degli ebrei come apporto alla costruzione del benessere economico europeo. L’aver eliminato dai vari discorsi la povertà degli ebrei vista come condizione ordinaria della loro vita ha dato origine d’altronde a una diminuzione delle riflessioni storiografiche dedicate alle problematiche relative alla loro cittadinanza incerta e alla precarietà dei loro diritti politici, ossia alla loro mancanza di potere politico e sociale. Il consolidamento nel tempo dell’immaginario che rappresentava gli ebrei come ricchi all’interno dello stereotipo che faceva di loro degli esperti in fatto di denaro per definizione, produce ancora oggi delle prospettive storiografiche piuttosto ambigue. Di recente, un libro molto letto e diffuso, scritto da rinomati economisti accademici e accolto con il rispetto che si deve ai prodotti scientifici più importanti, dotato dunque di una certa autorità, The Chosen Few, continua a diffondere un’immagine degli ebrei come gruppo economicamente eletto facendo risalire l’origine della presunta super competenza economica degli ebrei fino alle origini della Diaspora. Oltre a un uso piuttosto disinvolto delle fonti della tarda antichità e medievali che riguardano gli ebrei e le loro attività economiche, quello che colpisce in quest’ultima ed ennesima storiografia dell’attitudine degli ebrei al guadagno è la volontà esplicita degli autori di stabilire un legame diretto fra la ricchezza degli ebrei e la loro presunta alfabetizzazione economica, un sapere economico definito tradizionale dagli autori poiché deriva da un’alfabetizzazione religiosa degli ebrei che gli autori suppongono sia antica e originaria. Se si passa quindi a considerare la vita storicamente reale degli ebrei in paesi e situazioni concrete, in epoche specifiche, come si è fatto in questo convegno, si scopre rapidamente sia l’inconsistenza dello stereotipo dell’ingegno economico o ancor più finanziario degli ebrei, sia la falsità del luogo comune in merito alla loro ricchezza. Ci si ritrova piuttosto nel continente molto meno rassicurante della quotidianità ebraica, di una normalità fatta di poveri, di meno poveri, di più o meno ricchi, in presenza dunque di una stratificazione sistematica nonché complessità sociale delle società ebraiche di cui sia gli ebrei sia i non ebrei danno testimonianza. Ciò che fa crollare l’immagine della favolosa ricchezza degli ebrei e allo stesso tempo cadere in frantumi il fantasma dell’ebreo mago economico è quindi la ricostruzione della presenza degli ebrei nella storia, ovvero nelle storie che ricostruivano dal Medioevo alla modernità, tra l’Islam e il Cristianesimo, l’occidente contemporaneo. La ricostruzione storica della povertà o dell’impotenza sociale, dell’emarginazione o dell’impoverimento degli ebrei nei ghetti, le descrizioni delle forme estremamente variabili di dipendenza che caratterizzano la relazione tra una minoranza residente e una maggioranza che impone la sua legge e i suoi criteri di valutazione fanno apparire sulla scena del discorso storico piuttosto che degli ebrei nella prospettiva di una delle varianti della vulgata stereotipata e razzista, radicate nella secolare teologia apocalittica cristiana della redenzione, dei mendicanti ebrei, degli ebrei paganti le imposte, delle prostitute ebree, dei poveri itineranti ebrei, dei ricchi impoveriti o delle persone di classe media ebree, in poche parole delle persone e dei gruppi vivi e tridimensionali. La lente di ingrandimento storica riassunta dalla parola povertà rende d’altronde possibile l’analisi ravvicinata dei sistemi di valutazione espressi dalle società ebraiche, come d’altra parte dalle società cristiane. Diventa perciò possibile constatare l’incertezza e l’approssimazione con cui i poteri politici ed economici da un lato e gli assoggettati, i cittadini e gli stranieri dall’altro, o se si preferisce le reti socioeconomiche si rappresentavano tra medioevo e tempi moderni il superfluo, il necessario, l’abbondanza e la mancanza. Ma anche l’utilità produttiva e l’improduttività sterile. Si potrà notare, all’inizio, la differenza esistente tra la percezione e rappresentazione della povertà prodotta dalla società cristiana da un lato e dalla società ebraica dall’altro. Dal lato cristiano, la stessa parola che indicava la condizione di mancanza e di privazione, paupertas, era sovraccaricata da tutto un sistema di riferimenti allo stesso tempo teologici, economici e simbolici. Infatti, sebbene possa sembrare paradossale, la genesi delle categorie che producono gradualmente nel medioevo lo stereotipo dell’ebreo avaro ed economicamente pericoloso è stata strettamente legata, prima della formazione di una retorica sistematicamente riguardante la ricchezza degli ebrei, all’idea di una povertà simbolica e di una impotenza reale degli ebrei considerati infedeli dal punto di vista religioso e parias dal punto di vista sociale e civile. Durante il lungo periodo che, dall’età patristica al secolo XI, vede la formazione di un discorso cristiano antiebraico, la polemica teologica più che politica, e che non possiede ancora la veemenza economica che sarà tipica dei secoli successivi al XIII, rappresenta la resistenza degli ebrei alla conversione, nonché il rifiuto delle leggi cristiane in termini di povertà e di avarizia simbolici. L’ostinazione degli ebrei viene quindi descritta come una forma di privazione, di rinuncia alle ricchezze della rivelazione cristiana, quasi in termini di attaccamento ottuso, un attaccamento avaro e meschino a una Verità svalutata. Per dirlo attraverso le parole di un polemista della fine dell’undicesimo secolo, Bruno de Segni, come un rifiuto verso le squisite pietanze del banchetto che Dio offre ai suoi veri fedeli. Come i poveri che vengono spesso rappresentati dai teologi in termini di primitivismo, ignoranza e meschineria, gli ebrei rimangono invece attaccati alla cucina tradizionale, una cucina, secondo Bruno, rustica e grossolana, miserabile, che si fa allegoria della carenza spirituale nella quotidianità ebraica. Allo stesso tempo l’identificazione da parte degli autori cristiani latini di una condizione obbligatoria di schiavitù degli ebrei, della necessità della loro sottomissione ai cristiani (un aspetto del discorso che ritroveremo fino all’era moderna), una condizione punitiva risultante dal loro rifiuto di Cristo, apre, molto prima della formazione di una dottrina che definisse lo stato civile degli ebrei in termini di dipendenza servile del potere dei re, la possibilità di una definizione del Giudaismo come stato di degradazione in tutto e per tutto paragonabile alla povertà o all’esclusione sociale dei mendicanti nomadi, dei forestieri ignoti e di quelli che chiamavamo i vili. Eppure, paradossalmente, a partire dal dodicesimo secolo, la povertà spirituale degli ebrei, la descrizione della loro anomalia culturale e religiosa in termini di privazione e abiezione sociale o di avarizia scortese, si unirà a una nuova immagine della loro ricchezza perversa, riassunta in modo esemplare dalla minuziosa descrizione della minaccia economica ebraica che l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, invierà al re di Francia nel 1146. Se consideriamo la celebre lettera di Pietro il Venerabile a Luigi VII in relazione alla confisca dei beni degli ebrei francesi all’epoca della seconda crociata, potremmo in realtà trovare, oltre ad un discorso politico e polemico, il segnale di inizio di una rappresentazione stereotipata degli ebrei allo stesso tempo ricchi e reietti per definizione. Se guardiamo con attenzione il testo di Pietro il Venerabile, troviamo accanto al tema e al lessico della necessaria subordinazione degli ebrei e della loro impertinente arroganza, il tema e il lessico della ricchezza mal acquisita; non è chiaro se la ricchezza degli ebrei descritta con acrimonia da Pietro gli sembri tanto perversa in quanto manifestazione dell’insolente sfida degli infedeli che, invece di rimanere sottomessi e penitenti, partecipano ai giochi economici e si arricchiscono, o se egli veda in questa ricchezza una prova della decadenza della società cristiana, una società che Pietro rappresenta come perseguitata da ogni sorta di criminale, ladro sacrilego e imbroglione minacciante l’integrità dei sacri beni della chiesa. In ogni caso, i due aspetti del discorso non sono contraddittori. La trasformazione economica europea che mette in pericolo le istituzioni sacre sempre più indebitate agli occhi dell’abate di Cluny, è certamente all’origine di quel clima che favorisce l’insolenza degli ebrei e la loro pericolosa ricchezza. Reietti insolenti, nuovi ricchi arroganti, gli ebrei cominciano ad essere immaginati e stereotipati dagli intellettuali cristiani appartenenti all’Ordine sacerdotale come degli stranieri infami, spregevoli, armati con le disonorevoli armi create dalla nuova economia monetaria e dai rapporti commerciali che la caratterizzano. La volontà imperiale e autoritaria tipica della rivoluzione gregoriana e del sistema teocratico che ne consegue, riorganizza il lessico e le categorie utili per descrivere l’infedeltà degli ebrei e la loro ostinata resistenza alla conversione: questa persistenza nel Giudaismo, inteso come cultura, religione e lingua, è ormai descritta come una perfida tecnica di arricchimento a scapito del bene comune dei cristiani garantito e riassunto dalla prosperità delle istituzioni sacre. È proprio in quel momento, tra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, dal terzo al quarto Concilio Lateranense, che vediamo svilupparsi rapidamente lo stereotipo della ricchezza degli ebrei: la reale povertà o ancora meglio la stratificazione sociale degli ebrei in quanto componenti di gruppi umani storicamente specifici sparisce nel quadro dello stereotipo, rinominando in termini di ricchezza arrogante la resistenza degli ebrei alla conversione, indicando quindi la ricchezza come unica caratteristica che permette di comprendere e spiegare la tenacia del mondo ebraico, di dare un significato a un mondo di reietti all’interno dell’universo cristiano. È proprio durante la fase di elaborazione di questo stereotipo che ammette gli ebrei tra i cristiani come ricchi utili o pericolosi, utili e pericolosi, inutili e pericolosi, dunque tra il XIII e il XV secolo, un tipo di rappresentazione trionfante nell’Italia delle repubbliche e dei signori che patteggiano con i più ricchi tra gli ebrei per l’apertura di banche con tasse di anticipazione su titoli di credito, è proprio durante questa fase che le comunità ebraiche cominciano a sperimentare il paradosso di una vita quotidiana di cui la complessità sociale perfettamente storica e locale è riassunta dai linguaggi dei poteri cristiani che vanno in aiuto allo stereotipo di una ricchezza degli ebrei perfettamente metafisica e atemporale. Gli ebrei si trovano quindi sottomessi a delle istituzioni che, mediante uno stereotipo di origine teologica tradottosi in pratica quotidiana, negano l’eterogeneità e la stratificazione sociale delle comunità ebraiche, rappresentando e allo stesso tempo codificando la loro vita nella prospettiva di una maggiore o minore funzionalità delle ricchezze degli ebrei secondo le necessità economiche e fiscali dei poteri cristiani. Fino alla fondazione dei ghetti italiani e all’espulsione degli ebrei dai territori controllati dalla Corona spagnola, ci si trova dunque, per gli ebrei più o meno poveri e per quelli più o meno ricchi, a misurarsi con una vita quotidiana sospesa tra un’elaborazione dello stereotipo della ricchezza, un’introiezione o una reazione riguardante questo stereotipo prodotto dalla lingua politica della maggioranza cristiana, e una sopravvivenza economica, culturale e religiosa nonostante tutto. Tra le prime e più conosciute reazioni degli ebrei alle politiche economiche cristiane che riguardavano o la ricchezza degli ebrei o l’origine usuraria di questa ricchezza, la lettera al Re di Francia di Me’ir ben Siméon di Narbona, verso la fine del XIII secolo, può sicuramente essere considerata, al di là dell’analisi che vi ritroviamo sulle relazioni tra potere del re, economia del regno e ruolo degli ebrei all’interno di questa economia, un esempio di messa in discussione esplicita e di rifiuto dell’immagine degli ebrei come ricchi per definizione. Nella breve opera di Me’ir ben Siméon questo rifiuto del luogo comune della ricchezza degli ebrei implicita nell’ordinanza reale che dichiara il diritto dei cristiani di non pagare gli interessi ai loro creditori ebrei, prende la forma di una descrizione della reale economia degli ebrei e della prossimità di questa economia a una condizione di povertà sempre probabile. Alla luce di questa narrazione sulla precarietà economica degli ebrei, l’immaginario cristiano a seguito del quarto Concilio Lateranense, di cui il de regimine judaeorum del XIII secolo è una conseguenza, appare come una retorica che mistifica la condizione reale delle società ebraiche che vivono accanto a quelle cristiane. Mentre un primo livello di lettura del Mil’hemet Mizwah rivela la volontà del testo di ricondurre il discorso sul credito e il prestito alla situazione storica, e dunque di farlo uscire dal quadro mitologico delle polemiche sull’usura, un secondo livello esprime con chiarezza l’intenzione di raccontare la povertà e l’incertezza caratterizzanti il sistema dei rapporti con i creditori all’origine dell’incrocio e del dialogo tra cristiani ed ebrei. Da un lato quindi si sottolinea che un paese non può vivere senza credito, dall’altro che se i debitori non pagano gli interessi ai creditori, tutto l’universo familiare e comunitario legato al creditore si ritroverà in miseria. Il prestito a interesse sottratto alla dimensione retorica riassunta dalla parola usura, e dunque alla messa in scena di un’etica cristiana che nega apparentemente la logica del commercio dei soldi pertanto concesso dal Diritto civile e canonico, riappare infine nel testo di Meir ben Siméon come un mestiere necessario, molto comune, praticato da tutti, ovvero dalle persone più disparate, ma soprattutto da quelle che esercitano più professioni diverse tra loro, dai ricchi, dai meno ricchi, da persone appartenenti alla classe media, dai piccoli artigiani e lavoratori che si sforzano di non diventare poveri. D’altronde, l’indifferenza dei poteri cristiani dinnanzi alla povertà reale, che sia degli ebrei o dei cristiani, è aspramente denunciata da Meir ben Siméon, che sottolinea il paradosso di una società maggioritaria squilibrata, dove i poveri sono abbandonati al loro destino mentre le ricche istituzioni religiose vivono nell’opulenza. Il livello discorsivo esemplificato da Me’ir ben Siméon nel tredicesimo secolo ci riporta allo spostamento semantico operato dalle società ebraiche durante i secoli quando si aveva a che fare con la povertà e con i poveri. Mentre la società a maggioranza cristiana ha da un lato identificato, dalla fine del medioevo, come miserabili e spregevoli, o comunque equivoci e sospetti o gli infedeli in quando poveri simbolici, o i poveri involontari in quanto poveri reali presumibilmente pigri e crudeli, e dall’altro lato ha prodotto un vero e proprio misticismo della povertà del Cristo e di quelli che, in quanto eletti, lo rappresentavano su terra, la cultura ebraica pre-contemporanea osservava invece nello stato di povertà una situazione del tutto storica di mancanza, in sé né lodevole né spregevole. Il soccorso dei poveri, la paura di diventare poveri, l’indebitamento dei poveri, sottratti al lessico dell’infamia o al contrario della grazia, oppongono all’universo dei significati cristiani della povertà sempre vicina ad una metafisica del sacrificio e della perdizione, un’immagine dei geni economici che creano penuria e decadenza sociale dei problemi razionali o razionalizzabili da un punto di vista etico e politico. Sopravvivere, attraverso le vicissitudini moderne dei ghetti e delle espulsioni, allo stereotipo della ricchezza o della schiavitù, sopravvivere all’immagine radicata in una teologia secolare della salvezza che immagina gli ebrei come reietti stregoni del denaro, che li mitologizza come malattia economica dell’Occidente cristiano, diventerà infine possibile per gli ebrei che vivono nella storia solamente a condizione che si neghino o la povertà e la decadenza sociale, o la ricchezza e il successo economico, come fenomeni di ordine trascendentale, codificandoli invece come situazioni esistenziali transitorie non riassumibili in termini ontologici. Un ostacolo per la memorizzazione storica delle strategie di resistenza ebraica alla violenza istituzionale degli stereotipi, che rappresentavano gli ebrei come delle incarnazioni fantastiche della ricchezza, un ostacolo quindi alla rappresentazione storica della persistenza della sperimentazione ebraica del quotidiano politico ed economico, sarà rappresentato, oltre che dalla ricomparsa periodica di manifestazioni di un antigiudaismo e di un antisemitismo specificamente economici, dall’attitudine assimilazionista di una parte della cultura economica ebraica contemporanea che ha come scopo quello di enfatizzare la ricchezza degli ebrei come una componente della lunga durata del percorso di civilizzazione europea.
Giacomo Todeschini
Traduzione di Beatrice Bandini e Mariateresa Serafino, tirocinanti presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.