Ebrei di Libia sul piccolo schermo
“Tante storie, la nostra storia”
Un legame di molti secoli spezzato dall’odio e dalla violenza. L’esilio forzato, la sfida di reinventarsi altrove. Una storia in molti casi a lieto fine. Ma la ferita resta aperta, anche se il fluire incessante dei ricordi tiene in vita tradizioni e suggestioni.
In “Libia, l’ultimo esodo”, andato in onda sul primo canale come Speciale del Tg1, Ruggero Gabbai e David Meghnagi raccontano la storia degli ebrei libici dai tempi di Giolitti fino ai primi pogrom arabi e alla fuga definitiva del ’67. Per molti la meta fu l’Italia. Numerose le testimonianze raccolte nel documentario, tra cui quelle di due figure recentemente scomparse: Sion Burbea, protagonista della nascita del Tempio tripolino di via Veronese a Roma; e David Zard, noto produttore discografico e impresario.
“Un prodotto ben fatto, che mette insieme memorie individuali e ricostruzione storica. Mi ci sono ritrovato ed è stato emozionante veder comparire sullo schermo alcune foto di famiglia” commenta il Consigliere UCEI Victor Magiar, che appare nel documentario con una testimonianza. “Quello realizzato da Meghnagi e Gabbai – prosegue Magiar – è un racconto onesto, senza rancore e senza nostalgia. Un prodotto che ha anche il merito di aiutarci a cogliere alcune dinamiche sociologiche relative alla condizione di minoranza in un paese non democratico. Emerge infatti con forza la fragilità di una convivenza in assenza di una garanzia dall’alto e in balia di dinamiche primitive”.
Apprezzamento anche da Jacqueline Fellus, assessore UCEI alla Casherut. “Una delle caratteristiche di cui noi ebrei libici andiamo orgogliosi è stata la capacità di reimpostare le nostre vite, di riconquistare quello spazio che la violenza araba ci aveva tolto. Tutto ciò – afferma – nel documentario chiaramente emerge”. Un prodotto che definisce “ben fatto e realistico, anche se forse un po’ troppo leggero”. Secondo Fellus infatti “si poteva dedicare più spazio al tema della fuga, alla sofferenza e alla paura che provammo in quelle ore drammatiche”.
Amos Tesciuba, assessore allo Sport della Comunità ebraica di Roma, quelle vicende non le ha vissute in prima persona. La sua però è una delle storiche famiglie tripoline della Capitale e questa identità sostiene di sentirla totalmente sua malgrado all’anagrafe abbia poco più di 30 anni. “Le storie che questo documentario racconta, i volti e le parole dei suoi protagonisti, sono uno straordinario patrimonio anche per noi giovani. I racconti di famiglia sono qualcosa che sento vivo, che fa parte della mia esistenza e identità. Ieri sera – spiega – ho ritrovato un pezzo importante di tutto ciò”.
La sociologa Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio Antisemitismo della Fondazione CDEC, in Libia c’è nata. Aveva però solo 11 mesi quando la sua famiglia lasciò il Paese per l’Italia. “Pur in assenza di ricordi diretti – afferma – in tutto il documentario risuona qualcosa di familiare. Qualcosa che mi è stato tramandato, qualcosa che sento raccontare da sempre”. Tanti i temi interessanti intercettati nel documentario, sottolinea Guetta. “In questo bel lavoro, che ho apprezzato moltissimo, emerge una questione rilevante: il senso di unità degli ebrei libici, che deriva tra gli altri fattori dalla loro religiosità e dal loro sionismo. Fattori questi che hanno permesso loro di affrontare diverse sfide e prove difficili”.
Per Jack Luzon, già Consigliere della Comunità ebraica di Roma, il documentario “rappresenta nel complesso un buon servizio”. Tante le testimonianze, diversi i temi toccati. A suo dire però mancherebbero alcuni tasselli e la ricostruzione degli anni più duri sarebbe “un po’ addolcita” rispetto alla realtà dei fatti. “Dopo i pogrom del ’45 e ’48 il rapporto con il mondo arabo fu di mutua sopportazione. Una realtà ben diversa rispetto a quella descritta da alcuni nel documentario: nessuna convivenza tranquilla, nessun amore. Vivevamo invece in uno stato di continua ansia. La realtà – sottolinea – di chi continuamente doveva guardarsi attorno”.
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(14 gennaio 2019)