Periscopio – Desiderio di giustizia
L’arresto di Cesare Battisti, rappresenta, indubbiamente, una bella notizia, che permette di avere ancora, nonostante tutto, un po’ di fiducia nell’umana giustizia. Il fatto che l’iniziativa sia stata portata a compimento a seguito di una virtuosa sinergia tra le forze dell’ordine di diversi Paesi fa guardare con un po’ meno di pessimismo ai rapporti di collaborazione internazionale, e induce a rivolgere un sentito e profondo ringraziamento a tutte le autorità italiane, brasiliane e boliviane, che hanno permesso di assicurare alle nostre prigioni questo individuo spregevole.
Il primo pensiero va, naturalmente, alle vittime del criminale, la cui vita è stata spezzata – o gravemente compromessa – con efferatezza e cinismo, senza che, nei decenni successivi, sia mai stata pronunciata una sola parola di pietà, dubbio, resipiscenza. Dio solo sa cosa hanno provato e provano, da quasi quarant’anni, i familiari degli uccisi, o chi è stato da lui irrimediabilmente ferito e menomato, nell’assistere periodicamente, per televisione, ai suoi beffardi ghigni e sorrisi da spaccone, nell’ascoltare le sue rivoltanti rivendicazioni di presunto “esule politico”. Saperlo in carcere significherà, forse, un po’ di balsamo su ferite atroci, ma non restituirà il sorriso a nessuno, e probabilmente ravviverà la crudezza di ricordi crudeli.
Nello sperare che almeno qualcuno dei numerosi complici del cui aiuto il figuro si è avvalso in tutto questo tempo possa essere chiamato a risponderne, non si può non ricordare, con il più severo biasimo possibile, la deprecabile politica di ambigua protezione che ha assicurato una latitanza dorata a lui e a decine di altri loschi personaggi, promossa – va detto – da alcuni tra i massimi leader dello schieramento progressista (?!) mondiale: la cd. “dottrina Mitterrand”, che ha reso a lungo Parigi l’Eldorado dei peggiori delinquenti (per tutti, oltre a Battisti, rammentiamo Giorgio Pietrostefani, uno dei responsabili del delitto Calabresi, di cui, chi sa perché, non si parla mai), o l’ex Presidente brasiliano Lula, che scelse di concludere il suo mandato nel modo più ignobile, negando, l’ultimo giorno, l’estradizione, che era già stata autorizzata dalla magistratura del suo Paese. E non si possono dimenticare le decine di intellettuali – alcuni dei quali protagonisti di grandi battaglie per i diritti umani – che si sono apertamente schierati, senza un minimo di vergogna, in difesa dell’assassino: Fanny Ardant, Henry-Bernard Levy, Daniel Pennac e tanti altri.
Anche se non tutte le parole pronunciate in occasione di questo evento mi sono piaciute (e, soprattutto, ho trovato una pagliacciata che i vertici del governo siano andati all’aeroporto a godersi lo spettacolo dell’arrivo del prigioniero, come se fosse un circo, o un film western), il clima di apparente concordia nazionale sulla vicenda è da segnalare certamente come un dato positivo. Come sarebbe stata diversa la storia del nostro Paese, se questa unità e determinazione ci fosse stata anche in passato: per esempio, negli anni di piombo, quando moltissimi politici, giornalisti, artisti, studenti civettavano con i terroristi, e un pur grande scrittore, come Umberto Sciascia, diceva, applaudito da molti, “né con lo stato né con le Brigate Rosse”. E se il desiderio di giustizia unanimemente palesato riguardo a Battisti ci fosse stato, per esempio, anche nei confronti dei responsabili di alcuni atti atroci, come l’attacco al Tempio Maggiore di Roma, del 1982, o il sequestro dell’Achille Lauro, del 1985. La giustizia italiana, che mostra oggi, per fortuna, un volto rigoroso e coerente, si mostrò, in quelle occasioni, quanto meno distratta, svagata e indulgente, per non dir di peggio. E lo fece nei confronti di criminali certamente peggiori di Battisti, che, almeno, quando decideva di sparare a qualcuno, non sceglieva le sue vittime per il loro essere ebrei, bambini o paralitici.
Francesco Lucrezi, storico