Setirot – Il banco vuoto
“Il banco vuoto. Scuola e leggi razziali. Venezia 1938-45” è un libro che mi riguarda. Lo ha scritto, con vent’anni di studi e ricerche alle spalle, Maria Teresa Sega per Cierre edizioni. Mi riguarda innanzitutto poiché sento visceralmente giusto – dopo un 2018, ottantesimo delle leggi razziste, e il fiume di articoli, mostre, ragionamenti su quell’obbrobrio – il monito “prima le persone”. E “Il banco vuoto” ciò racconta, documenta: le persone, le piccole/grandi storie, in una città in fondo piccola, nelle calli, nei sotopòrteghi, nei campi, in un lasso di tempo definito e “visibile”. Che poi tra quelle persone, bambine e bambini, ragazzini e ragazzine, adulti, ci sia l’intera mia famiglia, parenti, amici dei nonni e dei miei genitori, nomi sentiti pronunciare di continuo durante l’infanzia – sommersi e salvati – rende le pagine strazianti e dolci insieme.
Si entra così nel vivo, come scrive in prefazione Gadi Luzzatto Voghera, della storia orale assunta come passaggio necessario, prima che anche l’ultimo dei testimoni ci lasci la responsabilità di raccontare quelle vicende compiendo altre scelte narrative e documentarie. Ed ecco davanti ai nostri occhi i bambini ebrei esclusi dallo Stato colpiti anche dalla reazione muta, silente dei compagni, se non spesso dalla aperta ostilità fatta da atti di bullismo, piaga difficilissima da estirpare nella gioventù di ogni tempo. Il bullismo, dinamica funzionale al potere – vi prego, guardate fuori dalle vostre finestre. Non a caso Luzzatto Voghera definisce “Il banco vuoto” un testo storico militante «nel senso che concepisce la ricerca – giustamente – come strumento necessario per comprendere la nostra realtà quotidiana e aiutare soprattutto le giovani generazioni a interpretarla».
Per un bizzarro gioco del caso, mentre leggo “Il banco vuoto”, la rivista online JoiMag ricorda un episodio contenuto nell’autobiografia di Giuliana Coen del 1981, “R come Roberta”. «La mattina della maturità entriamo in classe e assisto alla prima sorpresa. I banchi sono in fila, come sempre. Ma ce ne sono tre in un canto, un po’ scostati. Faccio per sedermi a caso, quando mi arriva alle spalle un professore e mi dice: “No, laggiù per favore”, e indica uno dei banchi messi da parte. Quasi nessuno si accorge di ciò che sta accadendo perché c’è il solito trambusto, gli amici cercano di stare insieme, c’è chi cambia idea all’ultimo momento, chi baratta il posto. Alla fine siamo tutti seduti. C’è un attimo di silenzio, finalmente. Ed è in quel momento che, da un banco centrale, si alza un ragazzo. Non è bianco, è mulatto. Alza la mano, per poter parlare. È figlio di una principessa eritrea e d’un generale italiano. “Volevo sapere perché quei candidati son tenuti da parte”. Il professore ha un momento d’imbarazzo. “Sono privatisti”. Il mulatto sorride. “Certo: privatisti. Perché sono ebrei, non è vero?”. Questa volta l’imbarazzo del professore è più evidente. Il giovane eritreo non gli dà nemmeno il tempo di dire una parola. “Se è per una questione di razza, nemmeno io sono ariano, come certo non vi sarà sfuggito, non è vero? Perciò, con il suo permesso…”. Prende l’ultimo banco della fila, che era vuoto, e lo spinge verso i nostri, di lato. Allora accade l’imprevedibile, davvero. Tutta la classe si alza, alcuni mi fanno alzare, prendono anche il mio banco. In un niente la classe è tornata normale: tutti i banchi tornano in tre file, noi siamo con gli altri. Il giovane mulatto, prima di sedersi a sua volta, fa un rigoroso inchino al professore…». Il suo nome era Ludovico Sprocani. E non è una commovente scena di “L’attimo fuggente”. Gesti rari, allora come oggi.
Grazie Maria Teresa Sega, ci hai reso gli sguardi e i corpi di quei nostri ragazzini e ragazze che la maggior parte degli italiani bollò come nemici degni di sputi e insulti. Degni – peggio – di indifferenza. Tutto ciò mi riguarda.
Stefano Jesurum, giornalista
(17 gennaio 2019)