Il messaggio di Liliana
Mi ha profondamente emozionata la conferenza di Liliana Segre alla Scala… eppure non è la prima volta che la sento parlare.
Sarà stato il pubblico, tra cui settecento ragazzi delle scuole medie e superiori, che per un’ora e mezzo l’hanno ascoltata in assoluto silenzio, tributandole una standing ovation all’inizio e alla fine.
Sarà stata la sacralità del luogo, il tempio mondiale della musica, dove siamo abituati ad applaudire i grandi divi.
Sarà stato l’effetto di lei così piccola rispetto al palcoscenico gigantesco, eppure grandissima. Bella con i suoi capelli candidi, contenuta e asciutta nel raccontare l’orrore, maestra nel catturare l’audience, con una carica di empatia insuperabile e la capacità di trovare le parole giuste, quelle che risuonano nell’anima. “Consideratemi per un’ora la vostra nonna” ha esordito, inchiodando la platea di studenti abituati al multitasking, che vengono considerati incapace di attenzione prolungata, e che invece sono rimasti fermi sulle loro poltrone, senza nemmeno muovere la testa, non un colpo di tosse, non un telefonino in mano.
Ci sono considerazioni diverse che fanno breccia in momenti diversi della vita. Come rileggere un libro a distanza di anni: sembra un libro diverso.
Ascoltando la straziante e dettagliata testimonianza di Liliana Segre questa volta mi ha colpita la frase “i contrabbandieri buttarono la mia valigia giù per il pendio e mi sembrò una cosa terribile .. capite ragazzi ..una valigia.. ma le valigie non valgono niente, le cose non valgono niente, quello che vale sono gli affetti , i sentimenti, dovete liberarvi dell’attaccamento alle cose ..”
Troppo spesso ce ne dimentichiamo, crediamo che la nostra identità sia nelle cose che possediamo, e perdiamo di vista l’essenza della vita, la nudità dell’Eden. Forse la condanna a coprirci, scacciati dal Paradiso terrestre, è stata anche questo: la condanna a scambiare la nudità con le “cose” -abiti case, oggetti, automobili…
Mi ha fatto venire i brividi la sua accorata testimonianza, così forte, così attuale, sull’essere clandestina, richiedente asilo in Svizzera, rifiutata e rispedita al mittente: “io so che cosa vuol dire sentirti senza patria, con gli altri che ti guardano dall’alto in basso, come se fossi un essere inferiore.. io che ero abituata al rispetto, all’amore” (anche la mia famiglia è scappata, stipata su un barcone, a loro è andata bene, ma ogni volta che leggo di quei poveretti in mezzo al mare, rifiutati da tutti, penso ai miei genitori e a mio fratello e alla loro odissea per mare di cui non hanno mai parlato).
E mi ha colpita la sua ferita ancora sanguinate per l’indifferenza – delle compagne di scuola, degli amici, dei vicini “all’improvviso sono scomparsa, espulsa da scuola, nessuno mi invitata più, giravano lo sguardo se passavo”. E non siamo noi, oggi, gli indifferenti verso gli altri che soffrono e muoiono? Che ci chiedono aiuto e facciamo finta di non sentire? Solo i detenuti a San Vittore, ricorda Liliana, hanno avuto parole e gesti di pietà quando, insieme ai suoi compagni di sventure, dal carcere è stata tradotta alla Stazione Centrale di Milano, al famigerato Binario 21, destinazione Auschwitz. “Erano uomini capaci di pietà. Vi vogliamo bene, dicevano, non avete fatto nulla, Dio vi protegga..”
La vicenda di Liliana Segre è la storia della progressiva perdita di tutto: la scuola, gli amici la casa, la libertà, il proprio paese e alla fine la perdita estrema dell’identità, del proprio corpo di ragazza giovane, bella e amata, del proprio nome mai più sentito pronunciare, sostituito da un numero tatuato sul braccio -75190, da imparare velocemente in tedesco, pena la vita.
Al pubblico che l’ascolta rapito – e non si sente volare una mosca – Liliana non risparmia nulla: la disperazione, la solitudine, l’orrore della deportazione, il cambiamento progressivo dell’amato padre distrutto dal dolore, l’odore nauseabondo (“sudore, urine, escrementi, un solo secchiello per 50 persone, capite? qualcuno mise lì un secchiello..”) sul treno merci che la porta a Auschwitz, la selezione di Mengele, che nota la cicatrice lasciata dall’operazione di appendicite, e lei teme di essere mandata alle camere a gas.. ma no.. lui fa una battuta sulla incapacità dei chirurghi italiani e le consiglia di farsela mettere a posto quando tornerà a casa.. nemmeno la beffa le viene risparmiata.
Racconta dei lavori forzati, della progressiva disumanizzazione, che le impedisce di voltarsi e salutare Jeanine, la sua migliore amica condannata a morire perché una macchina le ha tagliato le falangi di due dita, l’attaccamento alla vita nonostante tutto, persino dei vecchi e dei moribondi, le musiche che accompagnano le marce forzate l’arrivo dei treni il percorso verso le camere a gas, la coscienza di quello che stava succedendo “perché vedevamo tutto, le botte, gli assassini e il fumo implacabile delle ciminiere”.
E poi l’insensata marcia della morte, quando i russi avevano già liberato Auschwitz, “ma non è vero che fu liberato, aprirono solo i cancelli trovando cataste di morti e moribondi, chi si poteva muovere era stato portato via, nelle insensate marce della morte”, anche lei camminò 700 chilometri nella neve, “un piede dopo l’altro e si pensa solo a non cadere, perché se cadi ti sparano..” Larve umane che si trascinano nel gelo, senza vestiti, senza cibo, senza speranza, fino all’ultimo campo, ormai sono decimate, coperte di stracci e infestate dai parassiti. Dormono con gli zoccoli sotto la testa per non farseli rubare, e al mattino, ultima farsa crudele, devono coprire il pagliericci con una copertina nuova, linda, pulita, che non possono utilizzare per tenersi caldo di notte, perché serve solo a camuffare l’orrore casomai venisse una ispezione. E poi il primo gesto di pietà, i giovani operai che aldilà del filo spinato le vedono e non capiscono che cosa sono, animali? extraterrestri? e quando rispondono “siamo ragazze” non ci voglio credere, ma da loro arriva la prima parola di pietà “poverine come vi hanno ridotte, ma abbiate fede, fatevi forza, la guerra sta per finire, i tedeschi stanno perdendo, tra poco sarete liberate” e a quelle parole Liliana e le tre amiche italiane con cui ha condiviso il viaggio si aggrappano alla vita, quelle parole le salvano. Fuori c’è la primavera. Liliana racconta il miracolo dello sbocciare delle gemme, lei che per più di un anno ha visto soltanto grigiore filo spinato baracche neve fumo. Rinasce la natura e rinasce la speranza.
Liliana è irriconoscibile quando finalmente viene liberata. È uno scheletro mangiato dai parassiti, non sembra lei stessa ma non sembra nemmeno un essere umano, chi la vede non vuole credere che è una adolescente di sedici anni, è un ectoplasma uscito da un racconto dell’orrore. Eppure in tutta questa storia di perdite quello che le rimane sono i sentimenti, sono gli affetti, è la forza della pietà e la scelta di non uccidere il proprio torturatore, anche se se ne presenta l’ occasione, anche se quella belva efferata si spoglia davanti a lei della divisa per vestire abiti civili e scappare (“era lì, in mutande, in mutande, capite? lui che incuteva terrore solo a guardarlo”), e depone davanti ai suoi piedi la pistola. “Avrei potuto afferrarla le sparare. E sì, ho avuto la tentazione fortissima della vendetta, ma alla fine ho scelto ho scelto di non farlo, perché la mia è sempre stata una scelta di vita contro la morte. Una scelta di libertà.”
Credo che chiunque abbia ascoltato Liliana Segre alla Scala, e ci sono anche alcune ragazze musulmane velate, non potrà dimenticarlo, perché è una di quelle esperienze che segnano, che ti cambiano qualcosa dentro, anche per chi è abituato a lavorare sulla memoria. Mi auguro che gli organizzatori, l’Associazione Figli della Shoah, cui vanno i più vivi complimenti per l’iniziativa, l’abbiano registrata. Perché questa sua testimonianza meravigliosa dovrebbe essere trasmessa nelle scuole nei teatri nei cinema e magari anche in Parlamento, obbligando a guardarla chi fa riferimento ai Protocolli di Sion e chi non si risparmia battute negazioniste e antisemite.
Liliana è la testimonianza della forza di una donna che non si è lasciata abbattere dalla sventura, che ho avuto la forza di ritrovare equilibrio e serenità, di guardare al futuro senza dimenticare, e anzi facendo rivivere il passato, perché sia di monito.
È la voce che si leva contro l’indifferenza, ed è soprattutto la voce della vita che si erge contro la morte.
Voglio chiudere con l’insegnamento che nonna Segre lascia ai ragazzi. “Abbiate il coraggio di pensare con la vostra testa e di scegliere. Non fatevi indottrinare, non fatevi dire dagli altri quello che è giusto e che vi deve piacere. Scegliete quello che piace a voi e che è giusto per voi. E ricordatevi che non esistono razze, siamo tutti esseri umani, qualsiasi sia la nostra religione, il colore della nostra pelle, la nostra condizione sociale, la nostra lingua”.
Un messaggio di cui oggi più che mai si sente il bisogno.
Viviana Kasam