L’intervento della Presidente UCEI

Signor Presidente Mattarella
Signor Ministro Bussetti
Autorità
Cari testimoni della Shoah, Carissimi ragazzi, Cari amici

Vi racconto oggi la Shoah nello specchio delle donne. Il ciclo della vita è un alternarsi di speranza e disperazione. Nascere, maturare il nostro io, coltivare amicizie che promettiamo essere per sempre, scoprirsi adolescenti, attendere il nostro principe azzurro, amare, diventare madri e nonne, poi andarsene. Guardarsi prima avanti e poi alle spalle e nello specchio delle nostre vite riconoscersi. È quello che ciascuna di noi è ogni giorno.
Ma così non fu per le nostre madri e figlie di Israele, costrette dalle privazioni di legge a limitare ogni agire, poi dall’invasore a fuggire, poi con i treni a sparire.
Lì – nel senso di quel luogo che non è casa e non è più quel nostro piccolo regno – si guardava solo a quello che c’era prima. Le uniche immagini che facevano da specchio erano quelle della fine. Il cerchio della vita non era più un vissuto di decenni, ma solo morte concentrata.
L’ideologia genocida del nazifascismo vedeva le donne ebree come generatrici della “razza indegna” da estirpare. Le madri vedevano svanire i propri figli cosi amorevolmente cresciuti, donne senza più intimità del loro corpo, senza i capelli da pettinare. Non si riconoscevano più le proprie mamme, le figlie divenivano mamme dei loro padri e fratelli, sparite le sagge nonne, la vergogna imprigionava anche gli amori.
La feroce macchina di sterminio fatta di esseri umani il cui cuore ha smesso di ragionare, ha perpetrato sulle donne ulteriori e specifici abusi. E nell’universo concentrazionario le donne avevano anche il volto del crudele: le kapò.
Praticarono torture e poi tornarono dai loro figli. Solo decenni dopo, capiremo che i loro figli erano anch’essi vittime di un cuore arido, e di mente in fondo ordinaria.
Ruth Eliaz racconta cosa le fece Mengele, l’angelo della morte di Auschwitz: “Avevo appena partorito. Mi fasciò il seno perché non allattassi. Voleva vedere quanto poteva resistere un neonato senza nutrimento. Passarono sette giorni e arrivò una dottoressa. Pensai: è tutto finito. Invece questa donna, ebrea, mi consegnò una siringa e mi disse: uccidi tu la tua bimba, lei comunque è destinata a morire ma tu così ti salvi.”
Storie che non sembrano appartenere al genere umano. Storie che le sopravvissute si sono tenute dentro per decenni. Per paura di non essere credute, di essere accusate loro stesse di disumanità.
Anche nelle più terribili condizioni disumane si cercava quel senso di pudore e dignità, di consolazione, illusione o speranza. Attraverso la musica, il dipinto nascosto, il racconto di ricette da degustare con la mente; con la preghiera recitata segretamente, il digiuno di kipur nonostante la fame, il pane del sabato con due briciole preservate, il bottone dipinto per una nota al femminile. Forme di resistenza morale.
Nel lazzaretto del campo militare di Zeithain, erano trasferite le crocerossine italiane che decisero di non aderire alla Repubblica Sociale, tra cui Maria Vittoria Zeme. Anche loro hanno alleviato il peso morale che ha generato la Shoah, assieme alle moltissime Giuste tra le Nazioni, che hanno cresciuto figli altrui, proteggendoli e mettendo a rischio la propria vita. Moltissime le suore che hanno accolto e protetto intere famiglie, e partigiane che hanno combattuto per la nostra Liberazione. Con queste, dopo la guerra, il contributo delle donne che parteciparono alla costituente.
All’indomani della guerra il frenetico desiderio di vivere e dimenticare l’orrore ci ha immersi in un ciclo della vita che ha ripreso a guardare avanti. Il boom di nascite, studio e lavoro; il sogno di un’Europa che diviene comunità e poi Unione. Forse un ciclo di vita che pensa ad avere più che a essere, solo allo specchio di noi stessi e non degli altri, a guardare solo avanti e non più al passato, con la minaccia dell’oblio.
Cosa è allora il Giorno della Memoria, nelle nostre vite oggi? con quale sostanza allattiamo i nostri figli, quale messaggio di amore per la vita trasmettiamo, quali sono i traguardi che con loro festeggiamo? E soprattutto, quante di noi sono davvero libere di sognare, di amare, di lavorare?
Credo che la Memoria si possa onorare oggi riflettendo anche sugli abusi perpetrati in contesti apparentemente lontani dalla Shoah, come il diffuso e grave problema della violenza di genere.
Non è bastato un secolo e più di storia, dalla prima celebrazione del 1909, per porre fine alla discriminazione e alla violenza.
Proprio a tale scopo istituzioni ebraiche, cattoliche e islamiche hanno dato vita a una iniziativa chiamata “Not in my name”, per contrastare, e prima ancora prevenire, la violenza di genere. Una piattaforma interreligiosa, simbolo della volontà di combattere, con iniziative concrete ed esperienze valoriali comuni, la violenza sulle giovani adolescenti che si annida nelle nostre esistenze, per renderle consapevoli del loro ruolo, corpo, dignità, libertà.
Ognuno è chiamato ad interiorizzare: il tikkun olam, o “riparazione del mondo”, concetto ebraico secondo il quale ogni persona deve sforzarsi a lasciare una traccia positiva nel mondo. Un contributo di fare umano e consapevole. L’articolo 4 della nostra costituzione lo echeggia con il dovere di ogni cittadino di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Dunque lo sforzo di ognuno di noi è necessario, affinché si possa costruire una società in cui violenze, stravolgimenti e separazioni di famiglie non trovino più posto. Un’Italia in cui l’odio razzista non sia considerato il problema dell’Altro ma di tutti. Su cui le istituzioni e le più alte cariche dello stato che ci rappresentano e che operano per, e assieme a noi, concentrino i loro sforzi, e su cui poggiare la trave portante della casa comune che si desidera costruire.
È questione di identità da esprimere appieno, anche nei momenti difficili del ciclo delle nostre vite, così magistralmente dipinto da Gustav Klimt, artista degenerato per i nazisti.
L’odio antisemita, che ha radici antiche, non è un’espressione di intolleranza circostanziata in risposta ad un determinato comportamento. E’ il tutto a prescindere, nonostante i doni fatti all’umanità per amore della scienza e del progresso. Senza conoscersi, addossando la responsabilità di ogni male del mondo agli ebrei, o al contrario inventando mali inesistenti attraverso le teorie del complottismo. È il dichiarare ancora oggi un disegno di stermino nucleare del nostro popolo. Con riferimento alla Shoah: prima considerarla una pura invenzione ebraica di comodo, per culminare oggi nel riconoscimento della stessa, e al contempo attribuendo allo Stato d’Israele i medesimi comportamenti dei nazisti.
L’antisemitismo è problema di chi lo subisce ma anche di chi lo perpetua nelle generazioni.
Oggi ricordiamo le vite di persone che erano nel pieno della vita e della salute fisica, oppure malate e stanche; la cui vita era sacra e che furono sterminate in nome di una ideologia. Milioni di vite, ciascuna con i suoi genitori e insegnamenti tramandati, i suoi discendenti mai nati, ciascuna con le sue musiche composte e amori desiderati, battaglie di credo combattute, ciascuna con le sue preghiere e scialli indossati.
Oggi le loro voci sono idealmente rappresentate da pochi sopravvissuti. Li voglio ringraziare dal profondo del cuore. A tutti i Testimoni, anche a quelli che non sono potuti essere con noi oggi, un abbraccio da parte di tutte le comunità ebraiche italiane, che si rinnova in ogni occasione, partecipando in questi anni al vostro ciclo della vita, come in una grande famiglia.
In questa narrazione al femminile vorrei ricordare tre donne, il cui faticoso ciclo di vita ha accolto la partecipazione di infinite persone.
Cent’anni fa, il 2 febbraio 1919, nasceva Tullia Calabi Zevi, la prima presidente donna dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che l’ha guidata per quindici anni con grande saggezza, fermezza, proverbiale eleganza. A lei va il nostro commosso e affettuoso ricordo, e facciamo nostre le sue parole:
“Nuovi campi di concentramento possono tornare a esistere dovunque se i diritti di tutte le minoranze non trovano un terreno fertile sul quale attecchire. Noi ricopriamo lo scomodo ruolo di cartina al tornasole e coscienza critica della democrazia.”
Giacometta Limentani, scrittrice, studiosa di lingua e di vita ebraica. A lei, che fu violentata all’età di dodici anni nella propria casa da un fascista in visita ispettiva, e a tutte le donne che ogni giorno donano la loro arte, che ogni giorno creano con il loro sapere e fare un luogo che si chiama casa, dedichiamo il nostro pensiero.
E poi la nostra Lea Sestieri, scomparsa pochi mesi fa, all’età di 105 anni. Per decenni attiva in iniziative di Dialogo interreligioso e la prima donna a frequentare gli studi del collegio rabbinico.
E poi, e poi … altre migliaia…
Con le parole forti di un’altra Noemi, la Vogelmann Goldfeld, che narrano il suo ciclo di vita, saluto e ringrazio voi tutti:

Cordialità
Succhiai il latte di mia madre in via 3 maggio 40, a Katowice.
Durante la fuga mio padre mi portò sulla schiena.
E nello zaino aveva la Bibbia e lo scialle da preghiera, la ghemarà e i tefillin.
Di fiammiferi erano pieni i miei abiti
E la mia testolina d’infantili riccioli d’oro
Guastati poi dalle strida delle sirene e dall’umidità delle cantine.

Ogni giorno si consumarono le loro anime nelle tenebre dell’annientamento del popolo ebraico fino a bruciare
Io continuo ad assicurare una casa vuota.
Continuo ad assicurare
un ricordo di voci calde cordialità e tristezza ebraica.
Continuo ad assicurare
la bellezza che perdura di un tronco d’albero incurvato
e foglie verdi che germogliano di nuovo.

Noemi Di Segni, Presidente UCEI

(24 gennaio 2019)