…Stolpersteine
Provo a chiamare memoria performativa quella memoria che non tiene a distanza il ricordo ma lo assimila, inevitabilmente lo trasforma e lo perpetua facendone qualcosa di vivo e attuale. È lo stesso principio in base a cui ogni anno durante il seder di Pesach milioni di ebrei a tutte le latitudini escono dall’Egitto. Sono sostanzialmente due i modi con cui relazionarsi con il passato nel tentativo di valorizzarlo: rinchiuderlo al sicuro all’interno delle teche di un museo o nelle pagine di un libro di storia, per preservarlo nel modo più fedele possibile; oppure viverlo, e così facendo inevitabilmente trasformarlo, cioè tradirlo. La tradizione ebraica, come noto, per molti secoli ha privilegiato la seconda strada, non senza aver influenzato le società in cui si è sviluppata, in maggioranza non ebraiche. Mi sembra che la posa in molte città europee delle Stolpersteine, le pietre d’inciampo a memoria di coloro che furono deportati nei campi della morte, si possa legittimamente inserire in questa tradizione. Le pietre della Memoria vengono inserite nella pavimentazione urbana, su piazze e marciapiedi, in modo da farne parte senza interruzioni o dislivelli e così evidenziare, a mio avviso, come le persone i cui nomi sono ricordati sulle superfici lucide siano state strappate dal tessuto sociale e civico di cui erano parte. In questo senso le Stolpersteine sono come cicatrici nel cuore delle nostre città. Non meno importante, queste pietre sono parte della pavimentazione e assolvono alla funzione di sostenere il nostro passo: non monumenti isolati da additare da lontano, dunque, ma superfici calpestabili da vivere ogni giorno. E su cui, di tanto in tanto, fare inciampare la memoria.
Giorgio Berruto