Piotr, custode della Memoria
Se qualcuno può essere definito il custode della Memoria, certamente quel qualcuno è Piotr Cywinski, il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau. Barba da rabbino, fisico imponente, sguardo azzurro slavo, è un personaggio interessante e anticonformista. Ospite dell’USI, l’Università di Lugano, per una conferenza organizzata dalla Fondazione Federica Spitzer e dalla Città di Lugano, ha raccontato la difficoltà di gestire un luogo di morte trasmettendo però un messaggio di vita. Rievocare che cosa è successo, e come è successo, per evitare che la tragedia si ripeta, guardare al passato per costruire il futuro. Parlare a due milioni di persone ogni anno, soprattutto giovani provenienti da tutto il mondo, superando la barriera linguistica. Creare emozione senza cadere nel compiacimento dell’orrore. Utilizzare le nuove tecnologie evitando che la visita si trasformi in un videogioco.
Piotr ha una storia insolita, per il direttore di quello che è per antonomasia il luogo della Memoria. Intanto, non è ebreo. Viene da una famiglia cattolica legata a Lech Walesa e a Solidarnosc. Esule in Svizzera con la famiglia dopo la repressione di Solidarnosc messa in atto da Jaruselski, si è laureato a Strasburgo con un dottorato in storia medioevale.
Ad Auschwitz è arrivato per caso: chiamato come segretario dell’Auschwitz Council dall’allora direttore che voleva un giovane promettente per ringiovanire il Consiglio, è stato eletto alla Direzione dai sopravvissuti che ne facevano parte, dopo un cursus honorum sbalorditivo, culminato il 17 gennaio scorso con la Legion d’Honneur francese.
Il suo non è un compito facile. La Polonia si è radicalizzata, cresce l’odio per i diversi, per i liberali (culminato pochi giorni fa con il barbaro assassinio del sindaco di Danzica Pawel Adamovicz), il Parlamento ha promulgato una legge (poi emendata, ma non nella sostanza) che vieta di accostare il nome della Polonia allo sterminio nazista. Da qui all’antisemitismo il passo è breve per un popolo che è sempre stato profondamente antisemita, forse anche per la necessità di consolidare attraverso la religione la propria identità rispetto a un territorio che passava costantemente di mano in mano, ambito e spartito in ogni guerra dai Paesi limitrofi.
Ma Cywinski ha le idee molto chiare. Ha lanciato una raccolta fondi con l’obiettivo di arrivare a 120 milioni di euro per garantire un capitale perenne, che consenta di fare una costante manutenzione al campo per evitare che con il tempo si perdano tracce preziose, e rapidamente ne è arrivato a quota 111. Ha creato una piattaforma internazionale per educatori tentando persino, finora purtroppo senza successo, di suscitare l’interesse del mondo islamico (ha tradotto i corsi in arabo e in farsi, ma gli accessi si contano sulle dita di due mani). Gira di Paese in Paese, cercando collaborazioni con governi e ministeri per portare ad Auschwitz gli studenti (“se non c’è un sostegno istituzionale gli studenti non arrivano” spiega). E cerca costantemente un difficile equilibrio tra la specificità di quel luogo, e di quel genocidio, e la necessità di allargare il discorso, per creare la consapevolezza che ciò che è successo e che, in altre forma e con altre modalità, si può ripetere e si ripete. Soprattutto, e in questo il suo discorso si lega a quello di Liliana Segre, vuole trasmettere la necessità di combattere l’indifferenza di chi gira lo sguardo e fa finta di non vedere, oggi come ieri. È stata la catena dell’indifferenza, degli occhi chiusi, del senso di impotenza a reagire, dell’opportunismo politico, a consentire la realizzazione di Auschwitz, che non può essere ridotto solo al progetto efferato di una élite di belve assetate di sangue, ma è il prodotto di una progressiva sensibilità collettiva, alimentata dalla propaganda, dalla paura, dalla crisi economica. Analogie?
Cywinski chiude la sua conferenza con una carrellata di immagini agghiaccianti. Sono foto di SS, di guardiani del lager, che si godono i momenti di riposo dal lavoro, ovvero dallo sterminio: ridono, flirtano, posano per un ritratto di gruppo, sereni, rilassati, comitive spensierate come chi non sta eliminando esseri umani, ma parassiti schifosi che non meritano nemmeno una riflessione, un pensiero. Ma se sono arrivati a questo, è perché il mondo glielo ha consentito, come continuiamo a fare, tutti noi, nei confronti di tanti Paesi dai quali è facile stornare lo sguardo. Come la Birmania: pochissime voci si sono levate per denunciare il massacro dei Rohyngya nella generale indifferenza, avallata dal silenzio di quella che tutti noi è stata un mito di forza e resilienza, Aung San Suu Kyi.
“Non si può fare memoria solo identificandosi nelle vittime” è il messaggio di Cywinski. Bisogna far capire ai giovani che è necessario opporsi, non conformarsi, non appiattirsi sui comportamenti più facili, e per questo è fondamentale additare alla pubblica opinione i Giusti, no solo quelli che hanno rischiato la vita, ma tutti coloro che si sono opposti, per quello che potevano, che hanno resistito alle lusinghe del potere.
È il discorso che in Italia (e ora in tutta Europa) porta avanti da anni Gabriele Nissim, all’inizio non capito e anzi criticato. Gabriele, che per primo ha intuito che Giusto può essere chiunque, non l’eroe solitario, non colui che rischia la vita, ma semplicemente chi oppone resistenza e non si adegua all’ingiustizia e all’immoralità. Gabriele che ovunque, anche a Lugano, sta piantando alberi per i Giusti, per creare una grande foresta che si erga come un baluardo contro la banalità del Male. Un muro verde di vita e di speranza, contro i muri di sangue e di morte,
Viviana Kasam