Israele…
“Alienazione, solitudine ed una forte sensazione di abbandono”. Questo è quanto caratterizza l’opera di Etgar Keret secondo i giudici che gli hanno assegnato il premio letterario Sapir. Certamente espressione del mondo occidentale, questa descrizione non suona affatto nuova. Colpisce invece che si riferiscano a un autore israeliano. È il segno di un processo che porterà/sta già portando Israele a essere “una nazione (occidentale) come le altre?”. Nelle opere di Amos Oz, recentemente scomparso, il rapporto con Israele e con l’ebraismo è molto più centrale: segno del passaggio generazionale? In occasione di Tu biShvàt, ci si interroga sempre sull’analogia uomo-albero e sui limiti di questa analogia: “poiché l’uomo è come l’albero del campo” o “è forse l’uomo un albero del campo?” Come si concilia il forte radicamento con la necessità di spaziare? Certamente sono molte le similitudini fra l’albero e l’uomo, anzi l’albero è un modello: quando rabbì Yitzchàq si congedò da rav Nachmàn lo benedisse proprio paragonandolo a un albero che ha già tutto e al quale non resta che augurare che tutto ciò che da questo verrà piantato sia come lui; allo stesso modo, disse rabbì Yitzchàq a rav Nachmàn, “che i tuoi discendenti siano come te” (TB Ta’anìt 5b-6a). Il senso di continuità, quello almeno, è irrinunciabile.
Il tentativo di conciliazione fra locale e globale può inserirsi nella dinamica popolo eletto-parte dell’umanità? In fondo il termine glocalizzazione è stato ampiamente sviluppato da Zygmunt Bauman, un ebreo…
Rav Michael Ascoli
(29 gennaio 2019)