Setirot – Il doppio caso
Con Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina), Daniel Vogelmann compie due gesti importanti in una volta. Rende omaggio – un omaggio colmo di amore – al suo babbo Schulim z”l sopravvissuto ad Auschwitz e ne racconta la storia affascinante e avvincente, una storia di immenso dolore e di inimmaginabile resilienza. Per molti italiani, e per moltissimissimi ebrei italiani, Giuntina è un marchio familiare, un catalogo che comprende svariate collane e oltre settecento titoli, insomma una porta d’ingresso alla cultura ebraica. Basti ricordare che il primo titolo fu (è) La notte di Elie Wiesel, 1980, ben sei anni prima del Premio Nobel per la pace e del conseguente boom editoriale mondiale.
Ma non è della “autobiografia” intergenerazionale che voglio parlare bensì, un pochino, di Daniel, che dedica il libriccino alle proprie nipotine, figlie di suo figlio Schulim (direi junior se la definizione non mi facesse senso). La memoria corre al giorno in cui ci conoscemmo, trentadue anni fa. Un omone alto e grosso, allora, dalla barba brizzolata che ora è candida. Allora come oggi fa sorridere l’orsesca goffaggine con cui si muove nonché quell’aria mitteleuropea che tanto stride con lo spiccato accento fiorentino. Mi colpì profondamente una frase che gli sentii in seguito ripetere altre volte: «Quando i genitori sono stati in campo, credo sia facile giustificare la propria disperazione, il proprio rifiuto del mondo. A volte, l’unica possibilità di salvezza sembra diventare anche noi dei sopravvissuti, di sperimentare anche noi un’Auschwitz della mente. In fondo, sebbene indirettamente, pure noi abbiamo sofferto la deportazione». Come della Shoah si iniziò a parlare solamente negli anni Sessanta, dei “figli della Shoah” si prese coscienza a fine anni Novanta. Con la Giuntina, Daniel – credo – tentò, e probabilmente non ha mai smesso, di affrontare ancora una volta il proprio passato, cercando una sorta di complicità nel lettore.
Daniel Vogelmann, con Piccola autobiografia di mio padre, ci ricorda che, sì, si nasce per caso, e nel dopoguerra nascemmo ebrei per doppio caso.
Stefano Jesurum, giornalista