Il ruolo del sanpietrino

Tobia ZeviSi può dubitare di troppo successo? Sembra un paradosso. Prendete le “Pietre d’inciampo”, ormai note a tutti. Ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig (il nome originario è: Stolpersteine), sono state importate in Italia alcuni anni fa da Adachiara Zevi. Com’è noto, l’intuizione consiste nell’incastonare un piccolo sanpietrino bronzeo di fronte ai portoni che videro la deportazione di ebrei, oppositori, omosessuali e altri gruppi perseguitati dai nazifascisti. Il senso è fondamentalmente duplice: da un lato, restituire l’identità alla vittima rimasta senza volto e spesso senza sepoltura, proprio nel luogo in cui viveva; dall’altro, sorprendere il passante comune, insieme all’abitante della casa medesima, che per l’appunto si troverà a “inciampare” in questa vicenda singola e collettiva, senza poter deviare o girare lo sguardo.
Se giudichiamo dagli atti di vandalismo, l’idea è vincente: nel corso degli anni sono state divelte pietre per mano di anonimi e di vicini di casa, disturbati dall’ingombrante minuscolo segno urbano. Demnig, nel frattempo, continua a girare l’Europa per conficcare personalmente i sanpietrini incisi col nome, professione, data e luogo di nascita, data e luogo di morte della vittima, tanto da aver raggiunto la strabiliante cifra di oltre 70 mila pietre fissate in oltre 25 anni. La sua ricerca ossessiva ed eroica è momento decisivo della stessa opera d’arte: dietro ogni sanpietrino c’è l’indagine dei famigliari, la mobilitazione delle associazioni che si occupano di Memoria, l’attivarsi della burocrazia locale, il sudore dell’artista che si piega con la sua ginocchiera da pallavolista e il cappellone sempre in testa.
Due episodi recenti mi hanno colpito: in una scuola di Roma, la “Macinghi Strozzi” alla Garbatella, gli studenti hanno apposto nei giorni scorsi 24 pietre d’inciampo in memoria di altrettanti migranti naufragati in mare, scegliendo i nomi tra i repertori tragicamente a disposizione. Analogamente – come ci ha raccontato su “Internazionale” il celebre maestro Franco Lorenzoni – si sono mossi in una scuola di Pagani, provincia di Salerno, dove solo una pietra è stata apposta per ricordare la vicenda straziante e recente del giovane ragazzo annegato proteggendo la sua pagella scolastica. Chi conosce il mondo della scuola sa quanto le iniziative possano propagarvisi in modo veloce e pervasivo.
La domanda, davvero non retorica, suona più o meno così: tutto ciò, è cosa buona e giusta? Al di là del paragone implicito tra la terrificante strage dei migranti nel Mediterraneo – secondo alcune statistiche, sei o sette al giorno da oltre venti anni – e la Shoah, la questione riguarda specificamente le pietre d’inciampo: possono guadagnare una vita autonoma dall’artista? Sopravvivergli? Possono essere “autogestite” da scuole, comunità o singoli senza una verifica centralizzata e dell’altro? Possono perdere il legame coi luoghi, che ne era essenza costitutiva, senza risultarne snaturate? Se ci pensate, il dubbio sulle pietre d’inciampo si incrocia con quello cruciale della sopravvivenza ai testimoni diretti della Shoah, con il ragionamento sul futuro della Memoria.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas

Twitter: @tobiazevi