Ricordare bene,
ricordare tutto
Il problema non è solo cosa si intenda ricordare in ambito pubblico ma, soprattutto, il modo in cui lo si fa. Alla selettività della memoria pubblica (quest’ultima espressione è quasi un ossimoro, a ben pensarci) si accompagna il ricorso – ovvero gli usi – della medesima in una funzione compensativa o surrogatoria. Soprattutto rispetto all’azione politica nel presente. Si tratta di un argomento di riflessione comune al campo degli studi storici, come anche alla pubblicistica di vaglia, quest’ultima tale quando non intenda inseguire il clamore e lo scalpore dell’occasionalità, privilegiando semmai la riflessione di lungo periodo. Lo sguardo rivolto al passato, ai giorni nostri, infatti, sembra sempre più spesso essere rivolto a compensare la sgradevole impressione di un’assenza di futuro. Una sorta di maniacale rimando ai trascorsi; per soprammercato, con l’impressione, che in certi casi si fa certezza, di una forte propensione a lottizzare politicamente le memorie dei drammi e delle tragedie trascorse. Che scindere memoria da partigianeria dei sentimenti sia una impresa spesso difficile, poiché nella prima si sommano (del tutto legittimamente) anche rancori repressi, conflitti irrisolti, richieste di riconoscimento disattese o postcipate, non è meno vero. Poiché la memoria rimane una ferita, se si vuole che abbia un qualche significato non meramente celebrativo e quindi convenzionale. Altrimenti, si neutralizzerebbe da se stessa. Tuttavia, al netto di improponibili “pacificazioni”, la questione che ci si dovrebbe porre, quando ci si adopera per ricorrenze e commemorazioni pubbliche all’interno del calendario civile, è quella di trovare un terreno non di contrapposizione bensì di comunicazione. Il dolore del ricordo è quindi fecondo se costruisce un tessuto di scambi tra persone di diversa provenienza e con distinte storie. Anche per queste ragioni il ripetersi delle polemiche sul significato del “Giorno del Ricordo”, che ricorre oggi, come da legge istitutiva del 2004 («La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale»), nonché il suo stanco utilizzo divisivo, con astiose punte riduzioniste, revisioniste se non addirittura sgradevolmente minimizzatrici, appare un copione non meno sgradevole e bislacco di certe strumentalizzazioni politiche. Poiché ancora una volta rimuove non solo l’evidenza di un dramma collettivo, di cui l’esodo dei nostri connazionali istriano-dalmati fu la punta emersa in una durissima resa dei conti, ma omette ancora una volta di dire che l’Italia non fu solo vittima ma anche corresponsabile nello scatenamento di una guerra che perse poi disastrosamente. Facendone pagare il più alto tributo, ancora una volta, a civili nella totalità dei casi indifesi, travolti dall’onda lunga degli eventi e, come tali, proiettati verso ciò che a lungo fu per essi lo spazio privo di speranza. Poiché l’esilio è anche tutto ciò.
Claudio Vercelli
(10 febbraio 2019)