Chi siamo per gli altri
E se facessimo un gioco? Proviamo, per quanto difficile o illusorio possa essere, a uscire per un momento dalla nostra inseparabile dimensione ebraica e a guardarci con gli occhi degli altri, dei nostri concittadini non ebrei o comunque della società circostante. Chi siamo e cosa rappresentiamo per il mondo intorno a noi? Come siamo giudicati? Sempre più spesso mi trovo a pormi queste domande, da quando in pensione ormai come insegnante “generico” di Storia e Filosofia sono comunque assai coinvolto dal mio liceo e da altre scuole per l’introduzione a mostre legate alle leggi razziali o la trattazione sintetica dell’antisemitismo e in particolare della Shoah. È evidente che vengo interpellato in quanto insegnante informato su questi fatti anche perché condivide la condizione ebraica, cosa che del resto non ho mai nascosto a nessuno.
Ma torniamo al nostro gioco, muovendoci beninteso non nel settore oggi per fortuna limitato dell’evidente antisemitismo ma in quello dell’opinione corrente e del rapporto cordiale. Molti certo (e molti intellettuali fra costoro) pensano che gli ebrei siano fondamentalmente una élite di intellettuali, complessivamente e indistintamente molto intelligenti: anzi, che rappresentino per certi versi un’immagine consolidata della stessa intellettualità. Sarebbe anche questo, in tale ottica, a renderli tendenzialmente un po’ chiusi e isolazionisti.
Alla visione dell’ebreo come pensatore naturalmente elitario si affianca la sua rappresentazione come prototipo della sofferenza individuale e collettiva: una descrizione, questa, che è certo concretizzata dalla secolare storia dell’antisemitismo e soprattutto dalla conoscenza diffusa della Shoah. L’atteggiamento conseguente all’equazione condizione ebraica = situazione di dolore (dolore nel tragico passato e dolore oggi nel ricordo) è considerare gli ebrei come una minoranza da “proteggere”, da “benvolere” anche tramite l’esercizio della memoria, quasi a ricompensarli del male ricevuto. Il modo di porsi di tante persone sinceramente partecipi e anche davvero amiche nei nostri confronti in effetti riflette questa prospettiva “consolatoria”.
Altra percezione diffusa degli ebrei: quella del gruppo sempre emergente o riemergente nonostante le difficoltà e i tanti pregiudizi nei suoi confronti. Dietro, affiora spontanea l’insidiosa domanda: perché esso riesce sempre a riprendersi, qual è il suo segreto?
E qui, nel passaggio dalla capacità di ripresa a nuove ondate di rifiuto, il gioco dell’immagine dell’ebreo si fa ambiguo e pericoloso: la persecuzione perenne di una minoranza così colpita avrà pure un motivo, una giustificazione di fondo; niente nella storia avviene per caso, dice una logica immediata. Gli ebrei di oggi sconterebbero così, anche senza responsabilità personali dirette, colpe ataviche rinnovate nel tempo.
Dal tema della colpevolizzazione originaria potremmo gradualmente scendere a rappresentazioni fortemente negative e queste sì di fatto antisemite, sempre diffuse e presenti a un livello retrostante anche nelle percezioni positive.
Comunque vada, nel bene come nel male, tu ebreo sei e resterai sempre “l’altro”. È ben difficile che la tua condizione ebraica non ti venga in un modo o nell’altro ricordata, per essere poi posta al centro, analizzata. O per capire le differenze religiose, o per comprendere se la parola “ebreo” ha un significato nazionale e sia o meno compatibile con la definizione “italiano”, o per interrogarti su Israele e sulla situazione palestinese chiedendoti implicitamente di prendere le distanze da quello Stato. Insomma, il rapporto del mondo non ebraico con te non potrà alla lunga non convergere sulla tua “diversità”. Perché questo avviene? Siamo forse noi ebrei ad alimentare tutto ciò col nostro continuo illustrare, ricordare, ribadire l’ebraismo e la storia ebraica? In parte probabilmente sì, ma certo non potremmo rinunciare ad esprimere la nostra identità. E in ogni caso alle spalle della nostra “alterità” vi è soprattutto il bisogno che la società ha di un “altro” grazie al quale identificarsi differenziandosi.
È una situazione che può essere avvertita con fastidio, perché finisce col porre sempre una separazione, uno schermo tra gli altri e noi, anche quando gradiremmo avere con il nostro prossimo non ebreo un rapporto vis à vis, senza differenze preordinate. Eppure credo sia una condizione inevitabile. E se anche per assurdo fosse possibile cancellare nel rapporto con gli altri la nostra appartenenza ebraica, ciò sarebbe a mio giudizio negativo, perché significherebbe l’annullamento della nostra identità, di ciò che in definitiva contribuisce in modo fondamentale al nostro essere. Scomodiamo quindi un termine forte: che ci piaccia o no, è nostro destino di ebrei essere sempre gli “ebrei” degli e per gli altri.
Proviamo dunque a realizzare il nostro inevitabile essere ebrei, cioè diversi, nel modo più equilibrato, giusto e utile: cercando di rappresentare un termometro critico per la collettività e per noi stessi.
David Sorani