L’Italia e la laicità
Nella mia nota di mercoledì scorso, a proposito della visita di Papa Francesco negli Emirati Arabi, ho avuto modo di accennare al problema della libertà “dalla” religione, che dovrebbe sempre accompagnarsi alla altrettanto importante libertà “di” religione. E ho segnalato, al riguardo, che, se il secondo tipo di libertà viene sovente rivendicato, e, almeno nel cosiddetto Occidente, non c’è praticamente nessuno che osi dire apertamente che debba essere impedito a qualcuno di praticare liberamente la propria fede, quasi mai si avverte l’esigenza di affermare il valore (apparentemente opposto, ma in realtà strettamente connesso e complementare) della libertà “dalla religione”, ossia del diritto a non subire pressioni o condizionamenti di sorta in nome di una fede religiosa. Soprattutto nel nostro Paese, tale concetto appare molto poco sentito. La parola ‘laicità’, com’è noto, non compare mai nella nostra Costituzione repubblicana (a differenza, per esempio, di quella francese), e, anche quando apparentemente affermata, o tollerata, appare continuamente vilipesa e contraddetta, in modo, a mio parere, quanto mai evidente. Siamo invasi, per esempio, da crocifissi appesi in aule scolastiche, tribunali, ospedali, uffici statali ecc. e, quando qualche isolato spirito coraggioso osa protestate, si vede subissare da valanghe di insulti e contumelie, e, se chiede la rimozione del simbolo per via giudiziaria, si vede dare torto anche dai giudici. Il Consiglio di Stato ha sentenziato che il crocifisso va difeso proprio in quanto simbolo di laicità, e perciò deve sempre restare là dove sta. Sarà, se lo dicono loro…
Del problema si parla, in pagine di grande profondità, in un libro (dal titolo “De hominis dignitate”) di estremo interesse – di prossima pubblicazione per i tipi delle edizioni Mimesis, di cui ho l’onore di essere curatore, insieme al Collega Lorenzo Chieffi – che raccoglie gli scritti di bioetica di Francesco Paolo Casavola, tra i massimi giuristi contemporanei (già Presidente, tra l’altro, della Corte Costituzionale e del Comitato Nazionale di Bioetica). Ricorda Casavola come coloro che migrarono nell’America del nord, nel XVIII secolo, per fuggire da stati e Chiese che ignoravano la libertà di coscienza, vollero dotarsi di una Costituzione che prevedesse un’assoluta separazione tra stato e religione, arrivando così, nel 1791, alla promulgazione del Bill of Rights, che, all’art. 1, stabilisce che “il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di alcuna religione, o per proibirne il libero culto”. La libertà “dalla religione”, così, fu posta prima di quella “di religione”, e lo stesso accadde (come ricorda Daniela Bifulco, nel libro “Il disincanto costituzionale”, già citato mercoledì scorso) nella Repubblica di Weimar, i cui costituenti – memori della morbosa ispirazione religiosa del Reich, che aveva condotto al disastro della Grande Guerra – posero al primo posto, nella Carta Fondamentale, prima della stessa libertà di culto, l’espresso divieto di istituire una religione di stato e di subordinare o condizionare diritti e doveri all’appartenenza a una determinata confessione (artt. 136-139 e 141); una scelta poi capovolta, per vari motivi, nella successiva Costituzione di Bonn del 1949, nella quale la “libertà positiva” di religione viene prima di quella “negativa”.
Di libertà “negativa” (“dalla”) religione, invece, così come di laicità, nella nostra Costituzione italiana, non c’è alcun cenno. Una lacuna vistosa, che sarebbe stata colmata, in parte (ma, a mio avviso, in modo ancora incompleto), dalla successiva giurisprudenza costituzionale.
Ma, al di là di queste considerazioni storiche e giuridiche, la domanda che vorrei porre è un’altra. Può la stessa religione (e non solo lo stato, o il diritto) difendere il valore supremo della libertà umana fino a tutelare – e non come mera tolleranza o sopportazione, ma come affermazione di un vero e proprio diritto fondamentale dell’uomo – la libera scelta di rifiutare la (presunta) voce di Dio?
Per quanto riguarda, specificamente, l’ebraismo, ho già detto che, da non ebreo e non credente, non mi azzardo mai a pronunciarmi su questioni connesse al retto modo di intendere e vivere la fede ebraica. Da semplice individuo pensante, però, credo che la risposta sia direttamente collegata al modo in cui la voce di Dio viene udita. A una voce tuonante, forte e imperativa, si può obbedire, come disobbedire. E non è detto che chi disobbedisce (insegna l’Antigone) abbia torto. Ma una “voce di silenzio sottile” (qol demamah daqah [1 Re, 19.12]) non chiede obbedienza, ma, semplicemente, ascolto. E il problema della libertà dalla religione, innanzi a una voce silenziosa, svanisce. Non può esistere una libertà dal silenzio, e dal mistero.
Francesco Lucrezi
(13 febbraio 2019)