Storia dell’antisemitismo
Si è tenuta lo scorso mercoledì 13 febbraio, in una gremita sala Servi della Comunità ebraica di Firenze, la presentazione di Breve storia della questione antisemita di Roberto Finzi, edita da Bompiani con un cospicuo aggiornamento ad oltre vent’anni dalla prima edizione, alla presenza delle storiche Marta Baiardi e Francesca Cavarocchi, dell’editore Daniel Vogelmann e dell’autore. A moderare l’incontro Ugo Caffaz, citato in apertura da Baiardi per il suo saggio Le nazionalità ebraiche (Vallecchi, 1974) volto a suggerire una pluralità di identità e di realtà ebraiche poco note al pubblico anche a causa di una crescente semplificazione mediatica, che con diverse forme di antisemitismo va d’amore e d’accordo.
Dal classicista Mommsen, oppositore dell’antisemitismo del suo tempo, a Sartre, attraverso Les Annales di Bloch e Febvre, Baiardi ha ripercorso sinteticamente alcuni concetti chiave, individuati nel saggio di Finzi, che caratterizzano l’antisemitismo e prima ancora l’antigiudaismo occidentale: l’irrazionalità, la lunga durata delle categorie mentali, la cristallizzazione di paradigmi che procedono con salti logici e contraddizioni che tuttavia non intaccano la presa e la tenuta di schemi antisemiti.
Così, si può essere antisemiti in un mondo privo di ebrei (come già, mi sovviene, nell’iconografia francese che ben oltre l’espulsione del 1394 mantiene caratteristiche anti giudaiche, non solo nelle raffigurazioni dei segni di riconoscimento imposti agli ebrei, ma nell’interiorizzazione di stereotipi fisici e culturali). O inconsapevoli veicolatori di messaggi antisemiti, con un linguaggio intriso di pregiudizi (ad esempio nella locuzione ‘non fare il rabbino’ inteso come ‘non essere avaro’).
Che importa dunque, come ebbe purtroppo a dire Evola, se i Protocolli dei Savi Anziani di Sion è un falso, quando è comunque veridico nel senso di plausibile, secondo il noto stereotipo antisemita del complotto (a sua volta in contraddizione con la marginalizzazione che gli ebrei europei si trovavano a vivere proprio negli anni in cui il libro veniva diffuso)?
Contro tale assioma, non c’è argomentazione che tenga, e uno dei nodi centrali dell’analisi di Baiardi è questo: non c’è possibilità argomentativa di fronte al crogiuolo di topoi e banalizzazioni di un antiebraismo che si fa antigiudaismo (cristiano) e quindi, con la complicità del positivismo di fine Ottocento, antisemitismo di stampo razzista, spesso biologico.
È questo un tema che invece, secondo Cavarocchi, andrebbe sottolineato con forza: come l’antigiudaismo millenario, forte del connubio tra potere spirituale e potere temporale che ha permesso alla Chiesa di farne strumento di consenso, sia stato assorbito dalla naturalizzazione e dalla biologizzazione delle differenze in seno alla cultura positivista.
I toni equilibrati, la chiarezza espositiva e la capacità sintetica dell’analisi di Finzi meriterebbero un nuovo saggio, ha concluso Cavarocchi, sugli argomenti proposti in chiusura del volume: il riemergere dagli anni Settanta dell’antisemitismo in nuove vesti insieme ad altre inedite intolleranze, il crescente successo del cospirazionismo, il saldarsi dell’antisemitismo al contemporaneo antisionismo, con Israele divenuto metonimia dell’ebreo malvagio.
Resta ancora aperto e da affrontare, a mio avviso, il grande disagio di quella parte di mondo occidentale illuminista, che ancora si aggrappa ai principi libertari del 1789 e tenta di difenderne il processo universalista, e che tuttavia è inerme alla contraddizione del caro prezzo pagato dalla minoranza ebraica per il conseguimento di cittadinanza e pari diritti, in cambio dell’assimilazione e dell’annullamento delle differenze – ed è qui che l’antisemitismo si intreccia al moderno razzismo e all’incapacità europea di integrare le proprie minoranze sia secondo il modello assimilazionista francese, sia viceversa secondo l’opposto modello multiculturalista inglese.
Come ancora mette a disagio un altro punto, toccato da Vogelmann, sulla coesistenza di buona letteratura e razzismo: purtroppo si può, contrariamente a quanto affermava Sartre, produrre opere letterarie di qualità ed essere al contempo razzisti o antisemiti, da Voltaire a Dostoevskij per citarne alcuni – così come mi mette a disagio un Pirandello convinto fascista ben oltre l’assassinio Matteotti. Figure inconciliabili con la loro arte, sempre che l’intellettuale, l’artista, possano essere disgiunti dalle loro opere.
Meglio rifugiarsi nel pensiero consolatorio della ritrosa modestia montaliana, di chi a parole professava un’autonomia morale possibile solo con il disimpegno politico, e di disinteresse è stato a lungo accusato per una poetica fatta di negazione di certezze, ma poi nei fatti esprimeva ben di più della pars denstruens di ‘ciò che non siamo, ciò che non vogliamo’, e mostrava una chiara presa di posizione nei piccoli gesti che accompagnavano l’amicizia con Umberto Saba rifugiatosi a Firenze o il saluto del poeta a Liuba in fuga a causa dei ‘ciechi tempi’ delle persecuzioni razziali.
Sara Valentina Di Palma