L’identità e i rabbini

Gadi Luzzatto Voghera, in un suo pregevole articolo, scrive, fra altro, che “La nostra è l’epoca della secolarizzazione, nella quale Dio e la religione entrano in una dinamica privata, lasciando spazio a una gestione che diremmo laica degli aspetti della vita sociale non legati alle pratiche devozionali. In un simile contesto perde gran parte del suo peso la matrice giuridica della tradizione religiosa”.
Certamente, non intendo incombere sulla tastiera per provare a proporre un manifesto in favore della teocrazia, oppure, come si propugna nell’Europa comunitaria (diciamo) per asserire che possa essere una buona idea quella di far sovrapporre o intersecare le corti religiose con la giurisdizione statale. Non lo farei perché si sconfinerebbe nell’arbitrio e, se avessi proprio voglia di sbagliare, soggiungerei che si tratterebbe di arretrare le lancette dell’orologio, come potrebbe sostenere l’immortale setta degli storicisti.
Ora, pur apprezzando – e non potrebbe essere altrimenti – quanto asserito da Gadi Luzzatto Voghera, autore fra altro di pregevoli monografie, una delle quali appena aggiornata sull’antisemitismo, ed alle cui fonti culturali mi sono volentieri abbeverato, vorrei fare due considerazioni.
La prima è che l’ebraismo non ha fatto incetta di Nobel malgrado la religione (chiamiamola così, convenzionalmente) ma grazie ad essa; la seconda è che in tempi confusi se non addirittura caotici, i rabbini hanno fornito e forniscono una riserva di maîtres à penser assai dotti, equilibrati e creativi di cui il mercato intellettuale, per dire, è sempre più avaro.
Certamente, sono temi seri, che andrebbero sviluppati. Per ora, mi basterebbe aggiungere che non è sicuro che il miglior rabbino sia colui che è meno rabbino. Visto che debbo dimostrare che sono nel mondo, mi basterebbe richiamare il Nanni Moretti de “La messa è finita” o di “Palombella Rossa”, dove certe trasgressioni anziché essere apprezzate, vengono giustamente bollate come velleitarie.
Queste poche sciocchezze che ho messo insieme – visto che si è tutti così aperti – le vorrei esporre in pubblico; ma l’esperienza mi dice che l’apertura, per essere tale, richiederebbe un invito da parte delle persone aperte/socchiuse: lo faranno? Pazienza: d’altronde, mentre scrivo mi preoccupo soprattutto di Roma – Bologna e quindi posso lasciare le mie preoccupazioni per il giorno dopo. Non senza ringraziare chi dirige questa testata giornalistica, che da sempre si impegna per rendere alto e vivace il dibattito, riuscendoci.

Emanuele Calò, giurista

(19 febbraio 2019)