Torino – Oz, un ricordo a tre voci
“A volte i miei genitori mi lasciavano prendere qualche libro dallo scaffale di papà per portarlo fuori, in cortile e scrollargli la polvere di dosso: non più di tre alla volta, per non guastare l’ordine, perché ciascuno di essi tornasse esattamente al proprio posto. Era una responsabilità tanto grande quanto piacevole, perché l’odore della polvere dei libri mi eccitava, così a volte scordavo la mia missione e restavo fuori invece di tornare […]”.
In una manciata di secondi e di parole ci si trova catapultati in medias res tra le prime pagine di “Una storia di amore e di tenebra”. Davanti a noi compare l’Amos Oz bambino, l’Amos Oz talmente immerso nella lettura che fatica a riaffiorare “[…] un po’ come un annegato privo di sensi che da distanze inimmaginabili lentamente riaffiora e ritorna, seppure controvoglia, verso la valle di lacrime delle quotidiane incombenze”.
Questo l’intento della serata organizzata dalla Comunità ebraica di Torino assieme ai componenti del Get (Giovani Ebrei Torinesi). Diversi i contributi di chi lo ha studiato, tradotto, interiorizzato leggendolo: “Da Gerusalemme al mondo, la fortuna di un libro”, di Giorgio Berruto; “Letteratura, traduzione e amicizia”, di Elena Loewenthal; “L’impegno pubblico contro il fanatismo”, di Beatrice Hirsch. Un dialogo a tre nel tentativo di restituire la complessità di un autore che ha racchiuso dentro le proprie opere le sue molteplici sfaccettature: dall’autobiografia al pensiero politico, al racconto.
La serata, introdotta David Sorani, Consigliere alla Cultura della comunità, è stata ritmata dalle letture di brani tratti dalla sua opera principale, a cura di Chiara Levi, Alessandro Lovisolo e Rachele Tedeschi.
Punto di partenza è infatti “Una storia di amore e di tenebra”, testo pubblicato e tradotto in ben 29 lingue. “Più un libro ha una dimensione territoriale forte più ha probabilità di diventare universale”, commenta Berruto riprendendo le parole dell’autore. L’intervento ripercorre la diffusione del libro in Europa e nel mondo attraverso le scelte delle singole case editrici, influenzate da dettami commerciali, sensibilità del tempo: lingue diverse rimandano a paesi diversi, a diverse edizioni e copertine. Tutti tentativi di racchiudere inevitabilmente l’opera in un frame, in una prima cornice di senso, che permette al lettore di immergersi a livello visivo all’interno del racconto. E così sulle copertine si alternano la tela del periodo blu di Picasso, intitolata “Tragedia”, una scelta più criptica, senza riferimenti espliciti all’orizzonte culturale dell’autore. Segue la versione che raffigura un bambino che sale le scale che richiamano la città vecchia di Gerusalemme. La scelta di Feltrinelli per l’edizione italiana del 2003 ricade su una donna di spalle, un richiamo esplicito alla figura materna, tragicamente morta suicida. Diversa ancora la versione inglese, che raffigura un bambino intento a leggere con la testa appoggiata su due libri che fungono da cuscino. “Una scelta che abbandona i caratteri più tipici del contesto storico e sociale per abbracciare elementi più universali come l’infanzia”, commenta Berruto.
La parola passa poi ad Elena Loewenthal che ripercorre il suo ruolo di traduttrice italiana delle opere letterarie di Oz: “Spesso si accosta la traduzione al tradimento, in ebraico la parola stessa rimanda al verbo lapidare”. Niente di più lontano dal suo rapporto con lo scrittore. “È tutto il contrario, si tratta semmai di 20 anni di fedeltà reciproca e di fiducia”. “Il privilegio di lavorare sulle sue parole si traduce letteralmente in un ingresso nella camera da letto dell’autore, nella sua intimità più profonda”. Un impegno, quello della Loewenthal, che non si è ancora esaurito: il lavoro di traduzione la vede coinvolta, o come preferisce dire lei “immersa” nell’ultima opera dello scrittore scomparso lo scorso dicembre: si tratta di un testo autobiografico, una sorta di dialogo, di domande e risposte tra lo stesso Amos e la sua editor. “Tradurre un testo non ha nulla a che vedere con la sua lettura”, prosegue, “è un’esperienza condita da quello che era Oz come persona, da quello che trasmetteva ad ogni incontro, tanto da uscirne quasi sempre contagiata da quella sua ispirazione, da quel suo dirti cose sempre piene di senso che ti spiazzavano un po’”. “Mi ha insegnato la complessità, l’andare oltre l’evidenza delle cose, mi ha insegnato il significato ultimo del compromesso: non segno di debolezza ma sinonimo stesso di vita”. Da qui il richiamo diretto alle pagine di “Contro il fanatismo” e “Cari fanatici”, che fondono l’Oz scrittore all’uomo politico. A tracciare il percorso più marcatamente politico è Hirsch, che ricorda che venne spesso additato come “traditore”, criticato per le sue posizioni, per la propria visione che coincideva con la necessità di una soluzione a due Stati, in un’ottica di compromesso da intendersi come strada realmente percorribile e risolutiva se non nel breve, quanto meno nel lungo periodo. “È stato criticato da tutti proprio perché ha sempre avuto la sensibilità di vedere tutte le sfaccettature possibili legate alla questione israeliano-palestinese”, commenta Hirsch. “Lui, che conosceva il pluralismo proprio per la spiccata capacità di immedesimarsi nell’altro”. Contraltare assoluto del pluralista è il fanatico. Oz definiva il fanatismo come “il gene perverso” e considerava l’altruista il vero fanatico, quello che morirebbe per gli altri. Il compromesso, il pluralismo, la differenza tra diritto e rivendicazione, la capacità di andare oltre le monocromie per cogliere le infinite sfumature del comportamento umano. Sono questi gli immancabili ingredienti che hanno condito la sua scrittura e la sua letteratura, che lui stesso considerava il principale mezzo per combattere le derive e i fanatici, un mezzo per fornire qualcosa in più per capire gli altri.
Alice Fubini
(20 febbraio 2019)