JCiak – La sfida di Lapid
La notizia della settimana è la vittoria di Nadav Lapid alla Berlinale. Il regista passerà alla storia come il primo israeliano a conquistare l’Orso d’oro con il film Synonimes, storia brillante e rabbiosa di Yoav, israeliano espatriato a Parigi. Prima di lui, a salire su quel podio, era riuscito solo Joseph Cedar, vincitore nel 2007 per il suo magnifico terzo film, Beaufort. La seconda e più recente notizia è che, mentre tutti attendevano uno scontro epico fra Lapid e la ministra della Cultura Miri Regev, non nuova alle sparate contro registi a suo dire colpevoli di infangare il nome di Israele (fra i bersagli, si segnala Shmuel Maoz con Foxtrot), lo scontro per ora non c’è stato.
In una conferenza stampa in Israele, Lapid ha raccontato che la ministra l’ha contattato per fargli le condoglianze dopo la morte della madre Era (editor di tutti i suoi film, scomparsa mentre Synonimes era ancora in lavorazione). “Apprezzo molto il suo gesto e immagino sappia che le idee di mia madre erano diverse dalle sue”, ha detto il regista.
Nell’occasione, Lapid non ha risparmiato critiche all’operato di Regev, fautrice fra l’altro di una legge sulla lealtà culturale che vieta il finanziamento di lavori artistici che minaccino la buona reputazione di Israele – legge che, a giudizio del procuratore generale Avichai Mandelblit, rappresenta un serio rischio per la libertà di parola.
Il semplice fatto che un film come Synonimes, che non lesina critiche alla cultura israeliana, sia stato finanziato dal Ministero della cultura, la dice lunga su Israele, ha detto Lapid. “All’estero sono convinti che sia impossibile fare un film del genere con il sostegno del governo israeliano”. Il fatto che possa accadere è “l’espressione suprema del fatto che questo è un paese democratico”.
Ciò detto, Lapid ha invitato Regev a vedere Synonimes. “Sarei molto felice se lo guardasse dall’inizio alla fine e mi dicesse cosa ne pensa. È interessante mostrare i miei film a persone con opinioni diverse dalla mia”.
Synonimes racconta la storia di Yoav (Tom Mercier), giovane israeliano che – come ha fatto lo stesso Nadav Lapid – lascia il suo paese e si trasferisce a Parigi. Per tagliarsi i ponti alle spalle, decide di non parlare più ebraico e si arrangia come può con un francese approssimativo che pesca da un vocabolario tascabile.
Ai francesi che incontra spiega che Israele è un paese “ripugnante, fetido, osceno, volgare”, una delle tante sfilze di sinonimi che scandiscono la sua parlata e danno il titolo al film. Lungo la strada, Yoav sarà aiutato da una giovane coppia che gli regalerà un cappotto dal colore improbabile che lo accompagnerà lungo il racconto, poserà nudo per un artista e si venderà. Ad aggiungere un tocco surreale, gli incontri con gli addetti alla sicurezza dell’ambasciata israeliana a Parigi.
Come ha notato Jay Weissberg su Variety, quello di Nadav Lapid è un film che “chiaramente punta un kalashnikov contro la cultura militarista nazionale e il suo complesso di persecuzione alimentato con tanta cura”. Al tempo stesso, su un piano forse più leggibile per chi è estraneo alla realtà israeliana, Synonimes esplora la violenza di uno scontro interiore che nel tempo delle migrazioni di massa è di stretta attualità. È lo scontro fra l’identità del paese in cui si nasce e quella del paese che si sceglie ed è scontro di lingue, abitudini, affetti: l’abisso fra quel che si è e ciò che si può/vuole diventare.
“Quando ho finito il servizio militare – racconta Lapid – per un anno ho cercato di rientrare nella normalità, ma proprio in quella normalità è cresciuto il demone che mi ha convinto a scappare. Dovevo salvarmi. Come Yoav sono venuto a Parigi. Non avevo nulla, tranne il desiderio di smettere di essere israeliano e diventare francese”.
Come lui, Yoav lascia Israele certo di emigrare nel migliore dei paesi solo per per scoprire che la realtà è assai più complicata dei sogni. “Non basta scappare per cancellare la propria identità” è l’amara conclusione.
Daniela Gross
(21 febbraio 2019)