Machshevet Israel – Levinas a Davos, 90 anni fa
Nel marzo 1929 si tenne a Davos un lungo convegno filosofico (tre settimane!) sul tema “Chi è l’uomo?” di cui furono star Ernest Cassirer e Martin Heidegger. Il primo, classe 1874, era l’insigne esponente della scuola neo-kantiana fondata da Hermann Cohen e l’erede di un umanesimo illuminista-liberale con il quale buona parte dell’ebraismo assimilato tedesco si identificava, e a cui lui stesso apparteneva; il secondo, nato nel 1889, era sì allievo di Edmund Husserl ma aveva ormai imboccato la propria strada, soprattutto dopo la pubblicazione di Sein und Zeit [Essere e tempo] nel 1927, e passava per il pensatore più affascinante del momento. A Marburgo, già dal 1924, Heidegger aveva avuto tra i suoi studenti alcuni ebrei che diventeranno assai significativi nella storia della filosofia: Hannah Arendt in primis (di cui si era sinceramente innamorato), Karl Löwith, Hans Jonas e Leo Strauss. Negli ultimi giorni del convegno le due star ebbero un dialogo pubblico che per alcuni incarnò un corpo a corpo tra due Weltanschauungen, due visioni filosofiche in opposizione su tutto. “Strano dialogo” commentò infatti il francese Pierre Auberque, allora in veste di cronista; ed in effetti è difficile – almeno per noi e con il senno di poi – non vedervi lo scontro, più che l’incontro, tra l’ebreo-tedesco e il tedesco ariano. Ma si era nel ’29, non nel ’39, e si trattava ancora e soltanto di un confronto filosofico, sebbene fosse percepito come la rappresentazione di un’antitesi: la calma dialettica di Cassirer versus la febbrile iconoclastìa di Heidegger, il cosmopolitismo vs il localismo, il metodo critico vs la sentenza apodittica, i valori dell’ethos vs la forza dell’ethnos, l’europeismo vs il nazionalismo… l’antico vs il nuovo. Un giovane filosofo ebreo lituano, naturalizzato francese, con alcuni compagni dell’università di Strasburgo assisteva al dibattito: era Emmanuel Levinas.
Come reagì Levinas? O meglio, da che parte si schierò? Poco ci ha lasciato che si possa davvero capire, perché certamente, come i suoi coetanei, sentiva tutto il fascino del nuovo linguaggio del tedesco-contadino, con il quale condivideva la formazione fenomenologica alla scuola husserliana. Solo in età matura, rivalutando il retaggio kantiano, si sarebbe schierato con Cassirer. E solo alla luce delle scelte sbagliate del filosofo di Friburgo, che nel ’33 aderì al partito nazionalsocialista, e di quel che ne seguì, Levinas divenne un anti-Heidegger, elaborando forse la più grande risposta che il giudaismo filosofico potesse dare all’heideggerianesimo. Ma gli ci vollero anni: del 1974, il suo capolavoro Autrement qu’être ou au-delà de l’essence [Altrimenti che essere o al di là dell’essenza] può essere considerato il capovolgimento della prospettiva heideggeriana: il noi al posto dell’ego, la relazione e la vocazione come primarie rispetto all’essere gettati-nel-mondo; la responsabilità invece della vertigine dell’angoscia; l’essere per la vita piuttosto che essere per la morte. Levinas dedicò quella sua opera alle vittime della Shoah, da lui chiamata “la Passione di Israele”. E come Heidegger aveva forgiato un suo personale linguaggio per il ‘vino nuovo’ dell’esistenzialismo, così Levinas forgerà a sua volta un linguaggio inedito per la filosofia al fine di rifondare la filosofia non sull’ontologia dell’esser-ci ma sul primato dell’etica e della vita condivisa. Ma nel ’29, quanto Levinas poteva aver intuito delle potenzialità anti-umanistiche di una filosofia che invece sembrava tutta incentrata su un radicale ripensamento dell’uomo?
Non solo. Levinas – che l’opus magnus di Heidegger aveva preso sul serio – non negò mai la grandezza del friburghese; se ne servì, piuttosto, per costruirgli accanto un contro-discorso, un’alternativa di pensiero e di linguaggio non meno affascinante. E tanto il primo aveva evitato di rifarsi all’eredità biblica (rifiutata insieme al suo cattolicesimo) optando per la sola radice greca, quanto il secondo riformulò la sua antropologia sì in “lingua greca” ma partire dalla Torà e veicolando le sue radicali istanze etiche. Forse c’è più Heidegger in Levinas di quanto si voglia o si sia disponibili ad ammettere, perché nessuno può ignorare o essere impermeabile allo Zeitgeist, allo spirito del proprio tempo; ma Levinas, dall’interno della desolazione lasciata nel suo passaggio storico dal nichilismo implicito dell’ontologia heideggeriana, ha saputo rivendicare l’ebraismo stesso come umanesimo, come matrice di giustizia e dunque di civiltà: “Civiltà – dice Levinas – che la morale rende possibile: chiama, suscita, saluta e benedice, mentre essa [la morale], dal canto suo, viene saggiata e giustificata soltanto se può essere contenuta nella fragilità della coscienza, nei ‘quattro cubiti di halakhà’, in questa dimora precaria e divina”. Siamo noi questa dimora, a condizione che… se rispettiamo il precetto dell’ahavat ha-rea‘ e dell’ahavat ha-ger ossia le nostre obbligazioni verso il prossimo e verso lo straniero, verso il vicino e verso il lontano. A distanza di decenni, ecco la risposta di Levinas alla domanda del convegno filosofico di Davos: con Cassirer, oltre Heidegger – con la sukkà, la capanna della coscienza, oltre la Hütte, la baita dell’essere.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI