La cerimonia a Fossoli
“Può accadere nuovamente,
ma la letteratura può salvarci”
“Leggere Primo Levi e leggerlo a Fossoli ci fa capire ancora una volta, e sempre di più, che solo la grande letteratura, la grande arte, le grandi coscienze possono salvarci dalle acque del diluvio globale”.
Ieri sera Ernesto Ferrero, Presidente del Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino, ha concluso così il proprio intervento di apertura delle celebrazioni per i cento anni dalla nascita dello scrittore torinese. Lo ha fatto in una baracca del campo di transito da cui, settantacinque anni fa, Levi fu deportato ad Auschwitz insieme ad altri 649 “pezzi”, secondo l’umiliante nomenclatura adottata dai nazisti.
“In una baracca simile a questa – ha ricordato Pier Luigi Castagnetti, Presidente della Fondazione Fossoli, promotrice dell’evento insieme al Centro Primo Levi –, lungo il filare di casupole che corrono parallele a Via Renesina, Levi e i tre amici coi quali stava mangiando la pastasciutta, a pranzo, seppero che il giorno dopo, il 22 febbraio 1944, sarebbero partiti col primo convoglio. Oggi ricordiamo quel viaggio di quattro giorni, quelle carrozze merci terribili, lo sbarco a Birkenau in condizioni disperate e la tragedia del campo di sterminio. Una tragedia periodizzante non solo del Novecento, ma dell’intera storia dell’umanità. Per sopravvivere, Levi si era dato la missione di raccontare, affinché il racconto educasse le nuove generazioni. E i libri e le testimonianze che ci ha lasciato, comprese le interviste alla Rai, sono un magistero ancora oggi. Soprattutto quando parla dei processi di disumanizzazione, che colpiscono le vittime e i carnefici, e della necessità di ricostruire quelle porzioni di umanità perdute, di restare umani”.
Concetti espressi anche nel messaggio inviato dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella: “La memoria di Primo Levi costituisce un patrimonio prezioso e una riserva etica e di umanità. Dal lager uscì avendo toccato con mano l’abisso più profondo del male, l’annientamento della dignità dell’uomo, l’inferno sulla terra. Le ferite impresse sulla sua vita non poterono essere completamente sanate, eppure ebbe la forza di ripensare, di raccontare e di consegnarci il dovere di non dimenticare”.
Sotto lo sguardo di Lisa e Renzo Levi, i figli di Primo, di Noemi Di Segni, Presidente dell’UCEI, e di tanti esponenti del mondo ebraico italiano, tra cui vicepresidente del Centro Primo Levi Dario Disegni, i Consiglieri dell’Unione David Menasci, Arturo Bemporad e Riccardo Moretti, il Sindaco di Carpi, Alberto Bellelli, ha sottolineato come “la nostra comunità abbia capito di avere un ruolo importante sul tema della Memoria. Non possiamo sentirci solo spettatori, dobbiamo fare attivamente testimonianza. In questi anni, con la Fondazione Fossoli abbiamo trovato una collocazione nella rete internazionale della deportazione. Dopo anni di oblio, fino al 2023 il campo sarà un cantiere della conoscenza e della cultura, per diventare il punto di riferimento italiano per la deportazione. E domenica centinaia di studenti da tutta la provincia saliranno sui bus per l’ennesima edizione del Viaggio della Memoria, quest’anno diretto a Mauthausen. Ragazzi ai quali abbiamo sempre chiesto di coinvolgere i compagni che non potevano partire e di trovare la forza, quando sentono qualcosa di scorretto, di reagire, di dire: «Ragiona, fermati. Tu non hai visto, io sì»”.
Introducendo l’intensa lettura di Fabrizio Gifuni di alcuni brani di “Se questo è un uomo” e “I sommersi e i salvati”, Ernesto Ferrero ha rivelato di considerarsi “un amico di Primo Levi, perché ho avuto il grande onore di conoscerlo nel marzo 1963, quando lavoravo all’Einaudi. Arrivò con le bozze de “La Tregua” e alla seconda pagina, io che non sapevo niente di lui capii immediatamente di avere davanti uno dei maggiori scrittori del Novecento”. E se per Italo Calvino un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, Ferrero aggiunge una piccola variante, pensando proprio a Levi: “È un libro che continua a darci sempre di più con il passare del tempo, che cresce, come “Se questo è un uomo”. Peraltro scritto da un ragazzo di 26 anni che, per modestia, si è a lungo nascosto dietro la riduttiva autodefinizione di ‘scrittore della domenica’ o di ‘chimico che scrive’. Come se la chimica fosse una disabilità lieve ma evidente, mentre in realtà offre più strumenti conoscitivi”.
Infatti, da buon tecnico di laboratorio e ‘studioso di vortici’, Levi ha cercato di capire il funzionamento della macchina dello sterminio, della società umana, della testa dei tedeschi e di quella di chi ha potuto restare comodamente acquattato nella ‘zona grigia’, “categoria che rappresenta un autentico caposaldo dell’antropologia contemporanea – ha evidenziato Ferrero –. La zona di quelli che, per la buona pace, perché tengono famiglia, perché devono fare carriera, perché tanto se non lo fanno loro lo fa qualcun altro, fingono di non vedere né sapere, e così avallano le imprese più criminose. Levi li indaga, analizza, riflette e ne scrive guardando all’oggi, al futuro prossimo, senza voler sollecitare emozioni o spingerci all’indignazione, tanto meno alla vendetta. Effetti facili che a lui non interessavano, come non gli importava di atteggiarsi a vittima da compiangere”.
Un’attitudine che emerge con forza da un documento inedito, donato per l’occasione del centenario dai figli Lisa e Renzo: è la lettera che un mese dopo il ritorno a casa, nel novembre 1945, Primo scrive ai cugini scappati in Brasile, per raccontare loro la propria storia e dare notizia di un’Italia convalescente, ancora parzialmente infetta dal fascismo. “E se nel 2019 un senatore della Repubblica sventola un falso storico ignobile e conclamato come i “Protocolli dei Savi di Sion”, se in Francia e altrove si moltiplicano gli episodi di antisemitismo, se siamo qui a spiare e a contrastare i semi di una recidiva che non è solamente italiana, vuol dire che la guarigione non è completa nemmeno 75 anni dopo”. Proprio come metteva in guardia Levi nella conclusione de “I sommersi e i salvati”: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo”.
In quelle stesse pagine, lo scrittore racconta di essersi spesso sentito chiedere dai ragazzi delle scuole come fossero i suoi aguzzini, le SS: “Il termine è improprio. Fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio di origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa. Essere umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi. Non dei mostri, ma erano stati educati male. Erano in massima parte gregari e funzionari rozzi e diligenti. Alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti o paurosi di punizioni o desiderosi di fare carriera o troppo obbedienti”.
La formazione e l’educazione, dunque, come elementi decisivi per le sorti di una società: “Le opere di Primo Levi – ha osservato Ferrero – sono un inno alla gioia della conoscenza e della competenza. E in quest’epoca, in cui il sapere sembra essere diventato una colpa, dobbiamo accogliere l’invito pressante di Levi a fare nostre le qualità professionali del chimico: la capacità di pesare, misurare, distinguere, filtrare, sperimentare, sottoporre a sempre nuove verifiche i risultati, perché mai definitivi”. Dunque il rigore, la precisione, il saper imparare dagli insuccessi, la tenacia, la progettualità, l’estro combinatorio, la curiosità creativa. “Anche nell’uso delle parole, oggi così sciatto, volgare, cinico, truffaldino e spregiativo del linguaggio, ridotto a pochi lemmi svuotati di autenticità, abbruttito dal turpiloquio, piegato alle furberie di un gigantesco marketing di massa per ingannare milioni di creduloni e di odiatori. Murati come siamo nell’eterno presente dei social, ci stiamo rassegnando a vivere nello squallore di una miseria linguistica che diventa miseria morale e civile. L’esatto contrario della misura rigorosa, della strenua esattezza della scrittura di Levi”.
Daniela Modonesi
(22 febbraio 2019)