La democrazia difficile
Parto da una constatazione che proponevo nel mio ultimo intervento. “La civiltà, la convivenza costruttiva, la conoscenza formatrice sono coltivate ormai da esigue minoranze, sparute élites indispensabili quanto fragili. Nei movimenti di massa in ascesa trionfa la barbarie”. Provo a esprimerla meglio attraverso alcune domande e a sviluppare alcune riflessioni. Perché i movimenti di massa in crescita, i populismi/sovranismi contemporanei, producono demagogia anziché democrazia scivolando inevitabilmente verso l’intolleranza e il risentimento collettivo? Perché quelli che erano partiti di massa e continuano a costruire modelli democratici usando linguaggi e strumenti democratici sono ormai diventati gruppi elitari incapaci di dare risposte concrete alle masse, cioè di creare strutture politiche e sociali realmente aperte, efficienti, eque? O almeno di affermarle in modo duraturo creando intorno a sé approvazione e dinamiche costruttive? In altre parole, perché le grandi forze politiche autenticamente liberali e socialdemocratiche non sono state capaci di continuare a sviluppare costruzioni economico-sociali utili e adeguate? Perché la transazione alla realtà ipertecnologica dei nostri giorni è sfuggita al controllo delle strutture politiche figlie del Novecento?
Il primo interrogativo mi pare abbia una risposta nella stessa analisi dei movimenti populisti. Per carattere intrinseco e per definizione essi nascono con l’intento di sfruttare l’appoggio unitario di massa ai fini del potere, esercitato appunto in nome del “popolo sovrano”. L’adesione convinta e partecipe delle folle di cittadini ha qui quale unico scopo l’incremento dei voti, la crescita del senso di appartenenza al gruppo solidale e l’esercizio forte e autoritario della sovranità. In tale ottica, le riforme realizzate, per quanto costituzionalmente approvate da Camera e Senato, non devono apparire tanto quale risultato di un democratico iter parlamentare, quanto come vittorie e conquiste esclusive del movimento; in questo senso esse non sono la finalità del sistema, ma semplicemente uno strumento per incrementarne l’autorità verticistica e tenerla più o meno saldamente nelle proprie mani, salvo poi rischiare di disperderla quando la base popolare prima entusiasta si sente tradita dalle rinunce con cui il vertice deve necessariamente fare i conti per continuare a portare avanti la baracca, come con evidenza scorgiamo in questa fase nella vicenda del Movimento Cinque Stelle. Espressione complementare del potere populistico è l’intolleranza per tutto ciò che si contrappone, sfugge al controllo, “manovra nell’ombra” per rovesciare il “potere del popolo”, cioè la guida totalitaria mascherata da sovranità di massa; e con l’intolleranza cresce in questi movimenti, sino a divenirne espressione tipica, un risentimento autoritario.
Se però dall’immagine della demagogia travestita da democrazia – con cui da qualche mese si presenta l’indirizzo politico del governo italiano – volgiamo lo sguardo ai partiti di tradizione autenticamente democratica e alla loro recente evoluzione, siamo purtroppo colpiti dalla realtà della loro impotenza. Le élites illuminate che sempre nella storia hanno aperto la strada del progresso e anche attraverso le strutture dei moderni partiti di massa hanno orientato le grandi, costruttive trasformazioni collettive non sembrano più in grado di coinvolgere la maggior parte della popolazione. I partiti nati dopo la fine della prima repubblica hanno continuato anche nella seconda a parlare il linguaggio dei loro predecessori, in alcuni casi sensato e innovatore nei contenuti, in altri semplicemente e più spregiudicatamente conservatore. Evidentemente però, entrambi gli indirizzi si sono dimostrati incapaci di conquistare la massa dei cittadini del XXI secolo e di interpretarne le esigenze. In poche parole, non si sono sufficientemente rinnovati rispetto ai loro modelli novecenteschi nei rapporti con le rispettive basi, nelle procedure politiche, forse anche nelle tematiche di fondo. Gruppi consistenti di elettori, così, hanno imboccato la scorciatoia demagogica e non democratica che i movimenti populisti hanno nel frattempo abilmente costruito (la cosiddetta “democrazia diretta”), mentre le élites dei raggruppamenti democratici sono rimaste sempre più isolate, mettendo gradualmente in crisi anche la propria fondamentale funzione di guida collettiva.
Se questo timido e sintetico tentativo di analisi è almeno parzialmente realistico, è la sostanza stessa del nostro sistema democratico a essere in difficoltà, perché mentre le istituzioni democraticamente elette mantengono la loro insostituibile funzione pratica, le fonti stesse della democrazia – cioè i partiti organizzati secondo le sue regole – alimentano in modo sempre più debole l’insieme. Il rischio è quello di una democrazia sempre più formale con dei contenuti sempre più populisti, facilmente trasformati in legge e in sistema di potere da un governo demagogico.
L’esigenza di dare nuova voce alle istanze profonde della democrazia appare più urgente che mai.
David Sorani
(26 febbraio 2019)