RELIGIONI La mistica come tecnica

idelMoshe Idel / TECNICHE E RITUALI DELLA MISTICA EBRAICA / Morcelliana

Il legame tra il Creatore e il mondo può essere paragonato a una corda, anzi a una catena, dicono i qabbalisti ossia i mistici dell’ebraismo. Una catena fatta di anelli intrecciati, che l’uomo può percorrere all’insù, ascendendo nei mondi superni che quegli anelli collegano l’uno all’altro; ma può servire anche per scendere o far discendere la luce divina verso le sfere più basse, fino a toccare la materia di cui è fatto questo nostro mondo. Per secoli gli insegnamenti esoterici dell’ebraismo, riservati a una cerchia ristretta di maestri e di studiosi, hanno esplorato questa catena incantata, si sono aggrappati a questa corda o, con altra immagine, a questo pilastro, per salire al divino e ridiscenderne portando raggi di luce, un po’ come Mosè dopo gli incontri con Dio. Quando, nel corso del Novecento, gli storici delle fonti ebraiche hanno riscoperto manoscritti e rare edizioni delle opere di questi mistici, ne hanno dedotto complesse cosmogonie, dottrine metafisiche sugli attributi divini e un’antroposofia religiosa, ispirata, se non proprio fondata, sulle stesse Scritture bibliche. Così ancora oggi si parla di teologia qabbalistica, di dottrina delle sefirot o emanazioni, di teoria mistica del linguaggio, soprattutto grazie agli studi di Gershom Scholem e della sua scuola gerosolimitana: Isaiah Tishby, Yehuda Liebes e Joseph Dan. Tuttavia, l’ultimo grande studioso di questa scuola, Moshe Idel, da tempo sta suggerendo una strada alternativa per leggere e interpretare il vasto tesoro degli scritti esoterici dell’ebraismo: accostarli non come depositi di idee teologiche ma piuttosto come contenitori di tecniche mistiche, come resoconti di esperienze più che di dottrine, come manuali di esercizi. Quando leggiamo Ignazio di Loyola, spiega Moshe Idel, siamo colpiti non dalle sue intuizioni religiose ma dalla tecnica con cui esse sono vissute, ciò che viene chiamato ‘esercizio spirituale’: tempi e modalità e disciplina che tiene unita fisiologia e psicologia nel fare un’esperienza dello spirito. Anche nel sufismo islamico troviamo qualcosa del genere. Allo stesso modo, la qabbalà è meglio compresa in questa chiave tecnico-esperienziale, attraverso i riti quotidiani della religiosità ebraica come lo studio della Torà, la preghiera, le benedizioni e gli oggetti rituali, adoperati dai mistici ebrei per ascendere verso l’alto e per farne discendere la luce divina, metafora per eccellenza di Dio stesso. Ecco in sintesi la chiave per leggere l’ultimo libro di Moshe Idel Catene incantate. Tecniche e rituali della mistica ebraica, appena edito da Morcelliana (pagine 312, euro 25,00) nella collana diretta da Giovanni Filoramo e tradotto dall’ebraico dagli studiosi Emma Abate e Maurizio Mottolese. Un libro impegnativo ma affascinante, scientifico e nondimeno capace di illuminare la storia dell’ebraismo medievale e rinascimentale, senza la quale si fatica a comprendere anche il fenomeno mistico più diffuso e popolare, arrivato a noi attraverso la divulgazione di Buber, il chassidismo. Mistica come tecnica, come “esercizio spirituale” nel significato moderno del termine, nel senso in cui Pierre Hadot parlava delle scuole filosofiche ellenistiche, quasi fosse impossibile essere filosofi senza vivere al contempo da asceti, da monaci laici dedicati ad esperire il valore di ciò in cui si crede. Nell’ebraismo è lo stile di vita ritmato dall’osservanza dei precetti, dallo studio della Torà e dalle preghiere che diventa “tecnica spirituale”, proprio nel senso di esercizio dello spirito, dell’anima umana che tende ad unirsi al Divino o almeno alle sue manifestazioni. Sì, i qabbalisti avevano un’idea complessa del Divino e dell’universo, e per questo sono stati spesso accusati di panteismo, se non di irrazionalità e di praticare la magia. In realtà, come Idel spiega, erano propensi a vedere tutto in Dio e in tutto scorgere vie di accesso al Creatore. Da qui l’entusiasmo e da qui la ricerca di tecniche per “scalare la catena”: la ripetizione ad alta voce della Mishnà, la recitazione continua dei nomi divini, la contemplazione e le permutazioni delle lettere della Torà (unite a non pochi digiuni), tutte modalità che attestano come la qabbalà sia anzitutto una esperienza linguistica, incentrata molto ebraicamente sull’ascolto, sull’oralità, sulla vocalità. La mistica ebraica è sin dagli inizi una pratica linguistica, nella quale studio e preghiera convergono, e dalla quale sotto l’apparente cacofonia delle liturgie comunitarie l’unità non sopprime l’individualità, la norma halakhica non reprime la libertà della ricerca interiore. Giorni fa lo spicologo americano David Desteno, ragionando sui rapporti tra scienza e religione, ha sostenuto sul “New York Times” l’importanza terapeutica e il valore etico-pedagogico della ritualità in generale. Le religioni tradizionali erano maestre in quest’arte, dice, «caratterizzate da rigide azioni o preghiere ripetitive e da movimenti o canti sincronici: molti studi recenti mostrano che tali azioni o movimenti ripetitivi, anche fuori da un contesto religioso, producono sulla mente effetti che vanno da un accresciuto auto-controllo a un maggior senso di affiliazione e di empatia verso gli altri». E conclude che queste “tecnologie religiose” aiutano anche a superare difficoltà e a cambiare atteggiamenti negativi spingendo ad agire in modo più responsabile. La mistica ebraica non fa eccezione: nella lettura che ne offre Moshe Idel la ritualità ebraica, rielaborata dalla qabbalà, è uno strumento di unificazione dell’essere umano prima ancora che di unione con il Divino, uno strumento che permette, come la scala onirica di Giacobbe, di salire ad altezze angeliche ma anche di scendere nei recessi dell’anima e di ascoltare la voce divina nel punto più profondo della creazione. E la lezione del grande qabbalista e talmudista contemporaneo Adin Steinsaltz, divulgata nel volume Anima tradotto da Giuntina. Due voci così diverse come quelle di Idel e di Steinsaltz sembrano, da Gerusalemme, indicare entrambe nella mistica una via, un percorso utile per ripartire dall’interiorità e superare la chiacchiera della Babele contemporanea.

Massimo Giuliani, Avvenire, 19 febbraio 2019