Società – Se il modernismo è totalitario

Quarantacinque anni fa, la rivista «Storia contemporanea», fondata e diretta da Renzo De Felice, pubblicò una nota di considerazioni sull’ideologia del fascismo. L’opinione allora dominante fra gli studiosi negava l’esistenza di una ideologia fascista. Tutt’al più si concedeva al fascismo un’ideologia abborracciata e rabberciata con scampoli di ideologie tradizionaliste e reazionarie. Invece, l’autore della nota sostenne che il fascismo non solo ebbe una propria ideologia, ma fu un’ideologia modernista, rivoluzionaria e totalitaria, espressione di un movimento politico nuovo, mosso da un ottimismo tragico e attivo alla conquista del futuro, con l’ambizione di dare inizio a una nuova epoca e costruire una nuova civiltà. Il fascismo, proseguiva la nota, animato dal «mito del futuro», mirava alla rigenerazione della nazione per creare un «uomo nuovo», entro le strutture dello Stato totalitario, dove la massa viveva in condizione di mobilitazione organizzata permanente. «Nello Stato totalitario la vita civile era uno spettacolo continuo, dove l’uomo nuovo fascista si esaltava nel flusso della massa ordinata, col suggestivo richiamo alla solidarietà collettiva fino a raggiungere, in momenti di alta tensione psicologica ed emotiva, la fusione mistica della propria individualità con l’unità della nazione e della stirpe, attraverso la mediazione magica del duce». L’autore della nota concludeva però che nello Stato totalitario l’uomo era «ridotto a un elemento cellulare della folla e, come folla, suggestionabile non attraverso un discorso razionale, ma soltanto mediante gli strumenti della sopraffazione psicologica, della violenza morale attraverso la manipolazione della coscienze, degradando la vita a pura esteriorità Ma, esaltando la fantasia e l’immaginazione, eccitando i pregiudizi di gruppo, le angosce, le frustrazioni, i complessi di grandezza o di miseria, si distrugge la capacità di scelta e di critica dell’individuo». Simili affermazioni, pubblicate in tempi di antifascismo militante, suonarono sacrileghe. II temerario autore fu accusato, al pari del direttore di «Storia contemporanea», di produrre «una storiografia che attraverso il filologismo interessato e l’empirismo obiettivistico finisce sostanzialmente alla riabilitazione del fascismo, quando, come nel caso di Emilio Gentile, non arriva addirittura ad attaccarlo da “destra”». Questo accadeva quarantacinque anni fa in Italia. Chi scrive si è permesso di citare un esempio che lo riguarda, soltanto per mostrare quanti decenni ci sono voluti prima di liberare la storiografia sul fascismo dall’astoriologia, cioè dalla narrazione storica intrisa di pregiudizi ideologici e politici. La definizione del fascismo come fenomeno modernista, rivoluzionario, totalitario è oggi condivisa da quanti, nello studio del fascismo, seguono la strada della conoscenza critica e della comprensione razionale delle esperienze umane del passato. Lo confermano due recenti indagini sulla cultura del fascismo e della destra rivoluzionaria, condotte per vie differenti, dall’inglese Roger Griffin e dall’italiano Francesco Germinarlo. Griffin ha indagato la parentela” fra modernismo, fascismo e nazismo, ponendo al centro della sua analisi «il senso di un inizio», cioè il mito palingenetico di una nuova nascita, comune al fascismo e al nazismo. Gernúnario ha affrontato il mito politico della “morte sacrificale” nella destra rivoluzionaria, coniugato con la pratica della violenza, come energia rigeneratrice di una nazione afflitta dalla decadente modernità liberale e borghese. L’indagine di Griffin (edita nel 2007 e tradotta ora in italiano), muove dalla rielaborazione del concetto di modernismo, che lo studioso inglese svincola dall’identificazione con la modernità razionalista e progressista, postulata come l’unica valida definizione del modernismo politico. Con una complessa analisi, che si avvale di vasta cultura, inoltrandosi in vari campi, dalla politica alla psicologia, dalla filosofia all’arte, Griffin dimostra che l’elemento chiave per comprendere la genesi, la psicologia, l’ideologia, la politica e l’azione del fascismo e del nazismo, è «senso di un inizio”, lo stato d’animo di sentirsi sulla soglia di un nuovo mondo». Il senso di un “nuovo inizio” è stato il motivo propulsivo del modernismo in ogni campo, dall’arte alla politica, ed ha pervaso allo stesso modo tutti gli aspetti dell’esperienza totalitaria sia fascista che nazista. Al fascismo e al nazismo, il “senso di un inizio” fu trasmesso dall’esperienza della Grande Guerra, proprio perché fu l’apocalisse della modernità, generando dal sangue dei combattenti un nuovo senso dell’uomo e, nello stesso tempo, una nuova percezione della modernità come epoca di “distruzione creatrice”. Nel fascismo e nel nazismo, nei loro rispettivi regimi, dominarono la volontà di potenza e l’esaltazione dionisiaca dell’azione come fattori di un “modernismo alternativo” alla modernità razionalista del liberalismo e del bolscevismo: un modernismo totalitario, che aveva l’ambizione di sperimentare una rivoluzione palingenetica capace di sfidare il tempo e la morte, sottomettendoli alla trascendenza mistica della nazione e della razza, adorate nelle nuove religioni politiche, che usarono la violenza per nutrire le loro divinità con milioni esseri umani, massacrati durante la Seconda guerra mondiale e nei campi di sterminio. Fu questo il risultato finale del fanatico zelo del “modernismo alternativo”, col quale il nazismo cercò di distruggere la modernità liberale per creare il suo Ordine Nuovo. Su quest’ultimo tema si innesta il mito della «morte sacrificale» nella destra rivoluzionaria studiato da Germinano. Lo studioso italiano, pur senza esplicito riferimento all’opera di Griffin, analizza il «rapporto sofferto» con la modernità da parte della destra nazionalrivoluzionaria, ma concorda con lo studioso inglese nel considerare la distruzione della modernità liberale e borghese il principale obiettivo della violenza rigeneratrice dei nazionalismi integralisti e totalitari. Egli mostra inoltre, come lo stesso mito della «morte sacrificale» sia concepito come necessaria preparazione alla rigenerazione. La “morte sacrificale” è essa stessa l’atto primo della rigenerazione, come mostrano gli esempi che Germinarlo trae dai vari movimenti della destra rivoluzionaria, e soprattutto dallo squadrismo, fenomeno al quale lo studioso italiano restituisce una propria individualità storica, come primordiale incarnazione del mito della «morte sacrificale». Il militante che sacrifica la propria vita perla nazione conquista l’immortalità nel ricordo perenne della collettività misticamente fusa nella nuova trascendenza della religione totalitaria. Pur diversissime, le opere di Griffin e Germinarlo appaiono complementari. Possono suscitare talvolta perplessità e obiezioni, ma accrescono comunque la conoscenza e fanno riflettere. E ciò, in tempi di emarginazione della storia, di onanismo polemico e di saccente ignoranza, conferisce agli autori speciale titolo di merito.

Emilio Gentile, Il Sole 24 Ore Domenica, 24 febbraio 2019