Soldati
Claudio Vercelli – che ha finora concentrato la sua attività di ricerca soprattutto nei campi della storia d’Israele, dell’antisemitismo, del negazionismo, delle leggi razziali – ha affrontato adesso il difficile compito di ricostruire una storia dell’esercito italiano, o, sarebbe meglio dire, dell’istituzione militare italiana (Claudio Vercelli, “Soldati. Storia dell’esercito italiano”, Laterza, Bari-Roma, 2019). Difficile perché la storia militare non ha goduto in età repubblicana – dopo le ubriacature del periodo fascista – di grande fortuna, anzi si può dire che a lungo è stato un campo eluso dagli storici, che rispecchiavano l’orientamento della pubblica opinione, oscillante, nei confronti dell’istituzione militare, tra estraneità e timore. Questa elusione rispecchiava d’altra parte anche gli orientamenti politico-culturali prevalenti tra gli storici contemporaneisti. Bisogna dire tuttavia che questa carenza di studi è stata da alcuni anni superata, per merito soprattutto di Giorgio Rochat e di altri più giovani studiosi che hanno seguito la sua strada, dopo che per decenni l’unica, luminosa figura di riferimento era stata quella di Piero Pieri.
Per comprendere il taglio che Vercelli ha dato al suo lavoro bisogna riprendere ciò che dice all’inizio della “Premessa”, quando scrive che il suo «non vuole essere solo un volume di storia militare ma un percorso nelle dinamiche che hanno accompagnato il modo di concepire la “questione militare”, ovvero il rapporto fra civili, poteri collettivi ed istituzione armata, tale perché depositaria del monopolio della forza». Quindi non solo “storia bellica” ma storia di un’istituzione della socializzazione secondaria, dove, dopo quella della famiglia, si formano (o si formavano) le persone, perché gli eserciti sono «organismi collettivi, dove un gran numero di individui s’incontrano e condividono una parte importante della loro esistenza». Questo non significa infilarsi nello stretto sentiero della storia ideologica, perché, al contrario, Vercelli resta sempre strettamente aderente alle vicende che caratterizzano l’evoluzione dell’esercito italiano, appoggiandosi ad un grande quantità di dati e di informazioni che saggiamente inserisce per lo più nelle note, ma che permettono al lettore che voglia farlo di verificare la congruità delle tesi esposte.
Un libro come quello di Vercelli non può essere riassunto perché è di fatto una storia della società italiana vista sotto l’angolatura del ruolo svolto dall’esercito. Ma si può cercare di individuare i grandi nodi che hanno caratterizzato la specificità dell’istituzione militare. Il principale dei quali sembra essere la separatezza rispetto alla società civile che ha caratterizzato nel lungo periodo la storia dell’esercito italiano, una separatezza che ha alimentato una autoreferenzialità che non è mai venuta meno – almeno fino a tempi molto recenti – anche nei momenti di svolta storica che l’Italia ha attraversato: non è venuta meno nemmeno al tempo del fascismo, che pure aveva l’obiettivo di costruire uno Stato totalitario; e tanto meno al momento della nascita della Repubblica quando, dopo lo sfascio dell’8 settembre, si poteva pensare a un rinnovamento anche nel campo delle forze armate. Si potrebbe osservare che questa separatezza dell’istituzione militare dalla società civile non è una caratteristica solo italiana; questo è vero, ma ci sono anche esempi che evidenziano come sia possibile anche un diverso rapporto, fatto di scambi e anche di compenetrazione. L’esempio degli Stati Uniti – dove lo scambio a livello apicale tra vertici delle forze armate e vertici del sistema produttivo è piuttosto frequente, ma lo è anche nel campo della ricerca e in quello accademico – è particolarmente significativo. Per non parlare del modello israeliano, dove non solo è massima la compenetrazione tra esercito e popolo, ma dove i vertici delle forze armate hanno sempre giocato un ruolo rilevante nella dinamica politica del Paese, senza che questo abbia mai messo in discussione la sua natura democratica, come invece è talvolta avvenuto altrove.
La storia delle forze armate come viene disegnata da Vercelli appare così caratterizzata da una forte continuità, che prende avvio addirittura in età pre-unitaria, nelle caratteristiche dell’esercito del Regno di Sardegna. Anche la costruzione di un “esercito per il Regno” risponde allo stesso criterio annessionistico che ha presieduto anche in altri campi alla costruzione delle strutture dello Stato unitario. Una volta definite queste caratteristiche, esse si manterranno sostanzialmente immutate nel lungo periodo: non è un caso che il capitolo che Vercelli dedica, appunto, alla costruzione dell’esercito dello Stato unitario sia il più esteso di tutto il volume.
Questa continuità, abbiamo detto, caratterizza sostanzialmente anche il periodo fascista e quello del ritorno al sistema democratico e della nascita della Repubblica: ma non giunge fino ai giorni nostri. Una serie di fenomeni interrompono questa continuità e fanno sì che oggi l’istituzione miliare sia qualcosa di ben diverso da quella che hanno conosciuto generazioni di italiani. Il primo di questi fenomeni è individuato da Vercelli nell’adesione italiana al Patto Atlantico. L’integrazione delle forze armate italiane in quelle della NATO ha modificato in profondità non solo l’assetto strettamente militare ma ha costretto l’ufficialità ai vari livelli a uscire dalla dimensione angustamente nazionale che l’aveva fino ad allora caratterizzata e a misurarsi con una dimensione e con linguaggi radicalmente diversi, dove l’impronta statunitense era predominante.
Ma questo è stato solo il primo fattore che ha determinato una svolta nelle caratteristiche dell’istituzione militare: in seguito sono stati decisivi i fattori endogeni, le profonde trasformazioni che sono avvenute nella società italiana a partire dalla metà degli anni ’60 e che poi hanno dispiegato i loro effetti nel corso degli anni ’70 e ’80. Anche l’istituzione militare è stata coinvolta in queste trasformazioni ed è stato necessario, come scrive Vercelli, “coniugare la funzionalità dell’istituzione militare con l’evoluzione sociale, dentro un quadro di riferimento rigorosamente costituzionale”.
La conseguenza di questa trasformazione è stata un miglioramento dell’immagine dell’istituzione militare e una sua diversa percezione da parte della società civile. Due soprattutto sono stati i fattori che hanno influito nella costruzione di questa diversa percezione: il primo sono state le missioni militari all’estero, che hanno contribuito a dare dell’esercito italiano l’immagine di una forza dove all’efficienza si unisce una capacità di attenzione ai bisogni delle popolazioni presso le quali si svolgono le missioni, un’attenzione non sempre presente nelle forze armate di altri Paesi. Il secondo, non meno importante, è stata l’assunzione da parte dell’esercito delle funzioni di protezione civile, che ha avuto modo di manifestarsi in occasione delle numerose calamità naturali che hanno colpito il Paese a partire soprattutto dagli anni ’80.
Sono apparse quindi necessarie conseguenze di questo nuovo quadro di riferimento le due principali innovazioni che tra la fine del ‘900 e l’inizio del nuovo secolo hanno radicalmente e in modo irreversibile modificato l’assetto delle forze armate italiane: l’introduzione del reclutamento femminile e l’istituzione del servizio militare professionale, con la fine della leva obbligatoria di massa. In questo quadro Vercelli inserisce un’osservazione che merita un’attenta riflessione: la crescente meridionalizzazione dei quadri dell’esercito, conseguenza di una visione della professione militare come valvola di sfogo del problema occupazionale. E’ un fenomeno che riguarda tutta la pubblica amministrazione, compresa la scuola, ma che non può non destare una certa preoccupazione data la particolare delicatezza delle funzioni delle forze armate, soprattutto se si dovessero di nuovo manifestare, come è avvenuto in un recente passato, spinte alla messa in discussione dell’unità nazionale.
In conclusione merita ricordare che in Italia l’esercito era stato per gli ebrei, nel corso dell’800 e del ‘900, un potente fattore di integrazione nella comunità nazionale. Numerosi erano stati gli ufficiali, anche di grado superiore, che avevano partecipato alle guerre di indipendenza ed elevato era stato il contributo, anche di sangue, fornito dagli ebrei durante la I guerra mondiale. In particolare va ricordato che il Generale Giuseppe Ottolenghi, ebreo osservante, era stato ministro della Guerra nel ministero di Giuseppe Zanardelli dal maggio 1902 al settembre 1903. Tanto più odiosa apparve, nelle leggi razziali emanate dal fascismo nel novembre 1938, la disposizione che vietava agli ebrei di prestare il servizio militare, che comportò l’immediata espulsione dalle forze armate di numerosi ufficiali che vi prestavano servizio.
Valentino Baldacci
(28 febbraio 2019)