Carte e cartine
Nei giorni scorsi ha avuto ampia eco sulla stampa nazionale ed internazionale la dichiarazione dell’attuale Pontefice nel merito dell’apertura agli studiosi, a decorrere dall’anno entrante, degli archivi riservati di Pio XII. Si tratta di uno dei passaggi critici che nel passato sono stati fatti ripetuto oggetto di richieste alle quali, nel giudizio di molti osservatori, sono state contrapposte reticenti risposte. Fatti salvi i diversi criteri vigenti in ogni Stato riguardo all’accessibilità – nel corso del tempo – di documenti concernenti questioni e affari pubblici (o comunque su atti e carte personali ma rilevanti per la sicurezza del paese in questione), ovvero alla loro desecretazione, il merito delle polemiche ruota da molto tempo intorno alla più generale valutazione della figura di Pio XII. Più che all’accessibilità alle sue carte – che pure sicuramente riveleranno un indiscutibile valore testimoniale, peraltro come per ogni protagonista del proprio tempo – da diversi decenni la sua figura è stata infatti preventivamente avviluppata, e quindi compressa, intorno a due letture molto radicalizzate, in simmetrica opposizione. La prima di essa, sviluppatasi non a caso dai primi anni Sessanta, anche in progressiva concomitanza con il cambio di passo della Chiesa rispetto alle materie conciliari, ha voluto identificare in Eugenio Pacelli il garante compromissorio di alcuni calcolati equilibri nei confronti dei totalitarismi nazifascisti. Una tale condizione, peraltro, non è mai stata chiarita e declinata in termini strettamente storici (al netto delle eccellenti, argute ed ariose riflessione, in campo italiano, di studiosi come Giovanni Miccoli, Renato Moro, Alberto Melloni, Andrea Riccardi, solo per citarne alcuni), riferendosi perlopiù ai coni d’ombra, ovvero ai «silenzi», che hanno accompagnato il suo pontificato. La questione del rapporto con gli ebrei, soprattutto con la deportazione (non solo dall’Italia) e lo sterminio fisico, è così assurta ad indice specifico di una più generale reticenza che, a detta dei suoi critici, sarebbe sconfinata in una qualche compiacenza compromissoria verso i regimi dittatoriali fascisti: fosse anche solo quella derivante dall’omissione della denuncia rispetto alle tragedie che andavano consumandosi. La tesi simmetricamente opposta, invece, ha cercato di recuperare integralmente la figura di Pio XII, investendola addirittura di una funzione di sistematica protezione dei perseguitati, nel nome di un afflato progiudaico che, ad onore del vero, parrebbe invece essere stato sostanzialmente assente non solo durante il suo pontificato ma anche fino alle svolte decisive degli anni Sessanta. Il tema dell’apertura dei luoghi di culto, a partire dai conventi, ai rifugiati, ai fuggitivi, agli apolidi, da questo punto di vista non risulta essere dirimente nella formulazione di un giudizio definitivo. Poiché ciò che le opposte interpretazioni hanno comunque cercato di formulare è essenzialmente una valutazione politica (per meglio dire: sul magistero temporale e secolare) riguardo al Pontefice e sulle articolazioni istituzionali della Chiesa cattolica tra il 1939 e il 1945. In Italia ma anche in Europa. Si tratta di una impresa molto impegnativa che, detto per inciso, non potrà mai risolversi con un solo ed esclusivo giudizio di valore, come se l’operato istituzionale fosse traducibile e riassumibile in un’unica, esaustiva, riassuntiva formula. Vanno ricordati, nel merito della figura di Pio XII, tre aspetti fondamentali tra gli altri: la sua stretta vicinanza (sarebbe il caso parlare di parentela culturale) con le componenti conservatrici della Germania di Weimar, nella quale ebbe modo di maturare il suo ruolo di diplomatico per la Santa Sede, ciò che in fondo meglio gli riuscì nel corso della sua intera esistenza; il rigido anticomunismo, inteso come una vera e propria “visione del mondo”, laddove la Germania era chiamata a svolgere un ruolo di garante contro l’Oriente bolscevizzante; la tutela delle prerogative della Chiesa, come istituzione anche e soprattutto sovranazionale, rispetto ad un’epoca caratterizzata dalle innumerevoli tensioni moderniste, innescatesi con la seconda metà del secolo precedente, di cui liberalismo individualistico e collettivismo socialcomunista erano visti come facce diverse della medesima medaglia. Il rapporto con l’ebraismo va letto anche all’interno di queste cornici sovrapponibili. A ciò molto altro andrebbe aggiunto, e tuttavia basti per il momento come un primo insieme di rimandi a partire dai quali ragionare sul futuro uso delle carte che, dall’anno entrante, potranno essere lette ed interpretate. Nel merito delle quali va aggiunto da subito che:
1) non si può giudicare quello che ancora non si è potuto visionare. Parrebbe un’ovvietà ma per molti invece non lo è in alcun modo. Comunque, una ragione di più per accettare l’atto di “buona volontà” dell’attuale Pontefice, senza però farsi trascinare da subito in intempestivi giudizi di valore, o comunque lasciarsi guidare da aspettative alle quali si intende adeguare da subito gli eventuali riscontri a venire (della serie: tanto peggio per i fatti);
2) un archivio è sempre centrale nella definizione di un processo storico e nella formulazione di valutazioni sui suoi protagonisti. Rimane il fatto che l’uso dei documenti (comunque da contestualizzare, anche su un piano semantico) non può in alcun modo essere sostituito da una sorta di “feticismo delle carte”, come se solo queste ultime attestassero la plausibilità o, ancor di più, la veridicità-materialità di certi eventi: le carte, se opportunamente compulsate, corroborano (o smentiscono) ipotesi di ricerca ma non sono l’atto ultimo e definitivo di una indagine storica. È strategico non solo leggere cosa in esse c’è scritto ma anche come sia stato scritto ciò che esse conservano. Sono quindi necessarie, ma non sempre sufficienti da sole;
3) sui grandi processi decisionali – quelli che vedono la concorrenza di una pluralità di attori, di tempi e di luoghi – non esiste mai la carta ultimativa, quella che in un’unica soluzione dà la chiave definitiva. Si tratta semmai di un complesso lavoro di ricomposizione, come nel caso delle tessere di un mosaico. In genere, ci vuole molta pazienza e un certo acume, oltre alla conoscenza anticipata delle premesse storiche e del contesto di riferimento;
4) di certe scelte compromettenti (qualora si siano verificate), è assai improbabile che i protagonisti e i responsabili lascino prove certe o, se altrimenti disposte le cose, non si adoperino poi per cancellarle, qualora ciò sia ancora possibile. Sia ben chiaro che non si sta in alcun modo illazionando, semmai semplicemente riflettendo sul mestiere dello storico che, per inciso, non è quello del giudice (men che meno di quel magistrato – come certuni oggi preferiscono intendere il lavoro di quest’ultimo – perennemente convocato da una giuria giacobina, tale perché domanda sentenze lapidarie);
5) una ragione di più, pertanto, per ragionare su quegli eventuali coni d’ombra dove le responsabilità si fanno più sfumate, almeno da un punto di vista operativo, ma nelle quali si ricavano i profili di autoconservazione delle grandi istituzioni, soprattutto nei periodi delle grandi turbolenze.
Una domanda, a questo punto, è bene che i lettori di queste note si pongano: cosa vogliamo per davvero ricavare dalla rilettura dell’azione di un protagonista di quei tempi? Poiché, al netto dei distinguo, così come dei diversi accenti di merito, i postumi “regolamenti di conti” non renderebbero omaggio soprattutto a chi li spacciasse per verità storica. Nessuna indulgenza, sia ben chiaro, per chi dovesse risultare di avere in qualche modo sbagliato (tanto più giocando la carta della sua investitura etica), ma l’assordante trasformazione del giudizio storico in un tribunale è esattamente ciò che cancella il valore della ricerca sul passato per la costruzione di una cognizione compiuta del presente.
Claudio Vercelli