Controvento – Allarme robot
La cultura ebraica è sempre all’avanguardia. Già nel Medioevo circolava la leggenda del Golem, un umanoide che sfugge al controllo del suo creatore e minaccia l’umanità. È quello che sta per accadere con i robot?
Il problema è di grande attualità. Tant’è vero che in tutto il mondo si sono costituiti comitati etici con lo scopo di creare dei paletti giuridici alla proliferazione degli umanoidi intelligenti. Nel dicembre 2018 un gruppo di 52 studiosi selezionati dall’Unione Europea (tra cui 4 italiani) ha depositato il primo dossier sul codice etico per i robot (il documento definitivo è atteso per la fine di marzo). In sintesi, l’intelligenza artificiale non deve danneggiare l’umanità ma deve tutelarne la sicurezza fisica, psicologica e finanziaria. Inoltre, le macchine intelligenti non dovranno mai ridurre l’autonomia dell’uomo. Non cambia molto dalle famose tre leggi della robotica che Isaac Asimov immaginò negli anni ’40 per evitare che i robot danneggiassero l’umanità. 1) Un robot non può danneggiare un essere umano né permettere che un essere umano venga danneggiato; 2) un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, a meno che tali ordini non contravvengano alla Prima Legge; 3) un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. Ma basterà un codice etico per regolare i comportamenti delle macchine intelligenti? Anche senza addentrarsi nel ben noto problema delle automobili senza conducente qualora si presenti la decisione scelta di chi salvare in caso di collisione inevitabile (i passeggeri o i pedoni? Due giovani o una donna incinta?) prendiamo l’esempio degli assistenti personali agli anziani, che consentiranno a molti di conservare la propria indipendenza in età avanzata e di continuare a vivere nella propria casa. Da una prospettiva etica, questi sistemi contribuiranno a promuovere e proteggere l’autonomia personale. Ma possiamo consentire che il sistema robotico impartisca un ordine nei confronti dell’assistito, se quest’ultimo si rifiuta di acconsentire alla somministrazione di un medicinale? Qual è il giusto equilibrio tra protezione della salute e protezione della libertà personale nell’interazione uomo-macchina? E, come già si sta verificando in Giappone, quali sono i risvolti affettivi e psicologici di una umanità vulnerabile e sola, come gli handicappati e gli anziani, nei confronti delle macchine che li assistono e tengono loro compagnia?
Ma il problema non è solo etico.
Un libro che sta per uscire negli Stati Uniti, “The robots are coming: the future of jobs in the age of automation” di Andrès Oppenheimer, prevede che nei prossimi quindici/vent’anni il 47% dei posti di lavoro negli Usa sono a rischio di essere rimpiazzati dai robot. Avvocati, banchieri, medici ma anche attori e persino showmen. E un recente simposio organizzato dall’Università di Harvard è stato dedicato proprio alla sfida dell’intelligenza artificiale e della robotica nel campo della medicina e dell’occupazione in questo settore. L’OCSE è meno pessimista: secondo uno studio condotto in 32 Paesi, sarebbe a rischio in media il 14% dei posti di lavoro per un totale di circa 66 milioni di lavoratori. Ma le cifre variano da Paese a Paese. Per l’Italia le previsioni sono catastrofiche: si prevede una riduzione del 33% dei posti di lavoro. I più colpiti saranno i lavoratori impiegati nel settore agricolo e industriale, e in generale tutti quei mestieri che si basano su una conoscenza e su una capacità ripetibile e riproducibile e per i quali non sono richieste particolari skills emotive e gestionali, come per la gestione dei magazzini merci e di altre operazioni logistiche, per la chirurgia e la medicina riabilitativa, per i sistemi di sorveglianza e di mobilità, come i droni pilotati in remoto.
E poi ci saranno le automobili senza conducente (addio tassisti, guidatori di autobus e treni…), gli assistenti personali per anziani e altri gruppi di persone vulnerabili, le segretarie sul modello di Siri e, già lo vediamo, i call center automatizzati. Già siamo confrontati con la frustrazione di interazioni con realtà sempre più affidate all’intelligenza artificiale: mentre con un essere umano ti puoi spiegare, con una macchina, per quanto sofisticata, sei in balia di un sistema binario che non conosce eccezioni, almeno per il momento.
C’è chi prevede una umanità disoccupata che campa sul reddito universale di cittadinanza (forse noi italiani siamo già all’avanguardia…) e chi invece minimizza il problema, sostenendo che il mondo del lavoro cambierà ma in meglio, perché i robot svolgeranno tutti i lavori pesanti e pericolosi per la salute, offriranno maggiori garanzie di precisione e apriranno il campo a nuove professioni, come è avvenuto con la meccanizzazione dell’agricoltura e la rivoluzione industriale. Di questa idea è Arash Ajoudani, direttore del laboratorio di Human-Robot Interfaces and Physical Interaction presso l’IIT di Genova, la cui ricerca è rivolta alla creazione di macchine collaborative intelligenti, che possano assistere i lavoratori nelle loro attività quotidiane in modo produttivo e confortevole.
La sua tecnologia di supporto mira a ridurre le malattie professionali muscolo-scheletriche, che rappresentano la più ampia categoria di malattie professionali e sono responsabili del 30% di tutte le richieste di risarcimento da parte dei lavoratori. Questa tecnologia avanzata può prevenire la fatica e gli infortuni dei lavoratori, e fornire un’assistenza intelligente, migliorando produttività e benessere allo stesso tempo. “Il nostro obiettivo è la robotica collaborativa – sostiene Ajoudani – ovvero non miriamo a sostituire gli umani, ma ad aiutarli nelle loro attività quotidiane, in modo intelligente ed efficace”. Secondo Ajoudani, siamo ancora ben lontani da scenari di competizione distruttiva tra umani e macchine e dalla creazione di robot dotati di intelligenza autonoma e coscienza. Possiamo credergli? Nello stesso IIT di Genova, Giorgio Metta sta sviluppando un robot umanoide bambino, in grado di apprendere dall’esperienza. Nell’intenzione degli ideatori potrà stare dietro il banco della reception in un albergo, o in ospedale come aiuto infermiere e caposala, sarà capace di gestire cartelle e dati. Dopo un breve tirocinio per imparare le sue mansioni e muoversi in autonomia, sarà in grado di riconoscere ambienti, volti e voci: di compiere azioni come fare un caffè o prendere il telecomando al posto nostro, senza farci alzare dal divano; di comunicare (verbalmente o tramite la gestualità) un’azione comune, nonché di percepire e comprendere le intenzioni dell’altro (per esempio dal movimento o dall’espressione facciale). Ma un robot che è in grado di imparare, e quindi andare oltre le istruzioni impartite alla nascita, fino a che punto può essere controllato? Come possiamo assicurarci che non diventi un Golem? E chi potrà asportare la aleph dalla sua fronte?
Viviana Kasam
(11 marzo 2019)