POESIA S’è mossa la notte per incontrare l’Ebreo errante
Furio Jesi / L’ESILIO / Nino Aragno
Le poesie di Furio Jesi (Torino 1941 -Genova 1980), L’esilio, apparvero a Roma nel 1970. Nel mezzo secolo che è trascorso, esse hanno assunto un valore compendiano, esemplare di una ricerca che si svolge dall’archeologia all’egittologia, dal mito alla tradizione ebraica, ai «phares» del XX secolo, come il titolo di un suo saggio suggella: Rilke e l’Egitto (considerazioni sulla X Elegia di Duino) [in «Aegyptus», XLIV (1964), 1-2]. Jesi è soprattutto noto per i suoi saggi fondamentali: Germania segreta: miti nella cultura tedesca del Novecento, 1967 (appena ristampato da Nottetempo, 2018), Letteratura e mito, 1968, ma anche per il suo “Castoro” dedicato a Rilke e poi per gli altri dedicati a Thomas Mann e a Bertolt Brecht; non minore la sua presenza nella ricerca filosofica con le monografie su Kierkegaard, 1972, sulle Mitologie intorno all’illuminismo, 1972, su Pascal, 1974; costante infine la sua meditazione su Karl Kerényi, Elias Canetti, Martin Buber, Hermann Hesse, spesso introdotti o tradotti. La cultura mitteleuropea tedesca, la tradizione chassidica, sono stati il centro intorno al quale è ruotata la sua ricerca poetica, come mette in luce Giacomo Jori con un’introduzione che è vero saggio organico sull’opera di Jesi e con un finissimo apparato di note che ricostruisce il vasto, coltissimo, intreccio delle fonti. Soprattutto due sono i poli, di etica sobria e severa, che raccolgono questa parabola d’esilio, destino che inoltra l’esperienza umana – «senza scampo che non fosse durare privo d’attesa» (Ahasvero) – in una piaga di tombe: «un’altra tomba/in un luogo smarrito, senza nome» (In dubious Battle). Il primo, è impossibilità di disgiungere, platonicamente, corpo e anima, lasciare all’uno il commercio del mondo per salvare l’altra, poiché – interpretando e andando oltre l’apologo di Chamisso – «la vera storia di Peter Schlemihl, quella che nessuno ha mai raccontato, è più tragica: inutile rifiutarsi tardivamente di cedere la propria anima, perché di fatto la si è già venduta insieme con l’ombra. L’ombra, spiegavano i dotti ebrei dei tempi antichi, è quell’anima che riflette il corpo. Solo il gusto del diavolo per i giochi maliziosi, può lasciare l’illusione che, barattata la propria ombra, si sia ancora in condizione di scegliere se vendere o no la propria anima» (Verastoriadel uomo senz’ombra, edito postumo 1982). L’altro è quello che cerca di riparare la deriva dell’esilio, continuamente arginando la perdita in un “ritrarsi”, Tzimtzùm, che è tipico della tradizione ebraica: «la storia della mistica ebraica mostra che il concetto della “concentrazione” o “contrazione” (appunto tzimtzùm) di Dio […] fu il presupposto di un umano riprendere più volte il proprio cammino senza ritrovare la pace» (citazione dal saggio su Kierkegaard, opportunamente richiamata da Jori nella sua Introduzione, La poesia epica di Furio Jesi). Su questi fondamenti esigenti, e tragici, la poesia di Jesi si raccoglie in una serie di stazioni lungo il cammino, che dà titolo a una sezione del poemetto, di Ahasuero, l'”Ebreo errante”: «Si è mossa la notte a incontrarlo, colui che viene da lungi / Nel colmo di lei mi ha levato, poi mi gettò dal suo grembo». E quella notte avvolge la sola, costante, straziante, agnizione del nostro essere qui «Mentre io giacevo nel carcere che rossi pianeti / spandevano verso di me, altra mano già s’era alzata / e da lungi, con sfregi di ferro ardente, reggeva l’ora. / E un’altra mano, dei vinti, guidava la mia / per consacrato diritto […]». Una dolente Katabasis ci trascina verso l’Ade «Mille porte ha la casa dei morti, / ma un unico spazio chiaro tutti li accoglie, / anche se nessuno / più riconosce il proprio volto». Più propriamente si potrebbe definire, questo comporre, una trenodia, poiché- come Jesi stesso osserva nel Comunicato stampa che accompagnava il volume – «specialmente nell’ambito della mistica, l’esilio apparve come un’esperienza dapprima redentrice, poi sempre più catastrofica e apocalittica, fino alla morale antinomica di Shabbetày Tzevì («Lodato sii tu, o Dio, che permetti dò che è proibito»)». Se la meditazione di Primo Levi è stata, nelle proprie poesie, un ripercorrere il martirio di un popolo entro l’alveo della tradizione biblica, qui Furio Jesi, memore dei miti classici, rinserra il soffrire di tutto l’Occidente in un unico folto Triumphus mortis, che assumendo e scavalcando The Waste Land – ma richiamando The Hollow Men – di Eliot, fa confluire tutte le maschere del soffrire in un immenso Carnevale di Bruxelles, che è al centro esatto del suo poema: «Ad uno ad uno illuminò i propri volti / con la lanterna cieca: il Bambino, lo Straniero, / l’Incantatore, l’Omicida, balzarono dal buio del cuore / non maschere carne umana priva di sguardo, / muta e quieta […]». È la riscrittura dell’Entrée du Christ à Bruxelles (1888) di James Ensor, quel carnevale grottesco di maschere di morte, indifferenti all’Istante che giudica e salva, poiché «la morte è in mezzo a loro, e si diverte con loro, piagnucola con loro, accompagna a braccetto al lupanare; si mette a tavola con loro, con loro si siede a veglia davanti al fuoco» (G. Ungaretti, Visita a James Ensor,1933). Enel grande tumulto d’«interminati suoni» (antifrastica citazione dell’Infinito leopardiano),«là fu assolto e deriso. Era la sua / voce antica silenzio; il suo nome, Nessuno». Grazie a questa vigorosa e sapiente edizione di Giacomo Jori torna, a fronte dello spento realismo del Novecento, la voce più autentica e duratura del secolo, quella :daTS. Eliot al Minetti di Thomas Bernhard o al Mondo del silenzio di Max Picanialle «molte tombe» e alla «tacita vita» di Furio Jesi «Nulla si volge di là dalle sfere /della nostra memoria /Solo il silenzio chiama» (L’ora e le piogge, clausola).
Carlo Ossola, Il Sole 24 Ore Domenica, 10 marzo 2019