Teatro – Odissea degli smarriti della St. Louis
Erano 937. Avvistarono l’isola il 13 maggio. Avevano pagato somme cospicue, per poter salire sulla St. Louis e quello era il loro viaggio della speranza. Ma non li fecero sbarcare, né a Cuba, né negli USA e nemmeno in Canada, e dopo frenetiche quanto vane trattative, la nave non ebbe altra scelta che fare ritorno in Europa, dove ulteriori, complicate negoziazioni portarono alla suddivisione dei passeggeri tra Regno Unito, Olanda, Belgio e Francia. Un esito solo apparentemente felice, perché i passeggeri partiti dal porto di Amburgo e bloccati davanti all’Avana erano nella quasi totalità ebrei che avevano tentato la fuga dal Terzo Reich. Era il 1939. Poco dopo, l’Europa entrava in guerra e presto tre di quei Paesi sarebbero stati occupati dai nazisti. Quelle settimane attraverso l’oceano erano state un sogno diventato incubo. Una vicenda paradigmatica dell’Olocausto e non solo, riprodotta com’è, ancora e ancora anche ai nostri giorni, con altri protagonisti, su altri mari. Analogie fra ieri e oggi che hanno indotto Daniel Kehlmann, autore austro-tedesco da milioni di copie, ad adattare per le scene Il viaggio dei dannati di Gordon Thomas e Max Morgan-Witts, un libro che assieme all’omonimo film con attori stellari tematizzò negli anni ‘70 l’odissea della St. Louis. L’incarico per riscrivere quel dramma sospeso fra passato e presente è venuto dal Theater in der Josefstadt di Vienna, che per la stagione 2018-2019 voleva un fulcro sulle migrazioni, e dove assieme ad altre proposte, la nuova opera è in cartellone sino a fine stagione col titolo Il Viaggio degli smarriti: «Ho preferito il termine “smarriti” perché “dannati” ha un sapore teologico – spiega l’oggi 44enne, divenuto celebre con romanzi tradotti in decine di lingue, da lo e Kaminski a La misura del mondo, ai Fratelli Friedland, e da qualche tempo attivo anche come drammaturgo, – io invece credo si sia trattato di esseri umani smarriti dentro i meandri della politica». Sono infatti proprio i giochi politici a determinare l’azione scenica della sua ricostruzione. Nei dialoghi serrati compaiono capi di stato, ministri, emissari, consoli, burocrati. Vi è il presidente cubano Federico Laredo Brú, troppo occupato a cercare di resistere al confronto con il futuro dittatore Fulgencio Batista; e Franklin D. Roosevelt, che a Washington non vuole pregiudicare la sua rielezione del 1940, mentre a Berlino Joseph Goebbels guarda soddisfatto ai divieti di sbarco oltreoceano per gli scomodi passeggeri della St. Louis: una certificazione, d’un sol colpo, della volontà della Germania di lasciare andare gli ebrei e dell’evidenza che il mondo non li vuole. Nel sottobosco della politica vi è anche il piccolo funzionario nazista travestito da steward, che sogna una grande carriera e per mettersi in luce vessa i passeggeri. È lui, Otto Schiendick, che dà il via alla rappresentazione, lanciando alla platea dalla ribalta un ammiccante: «Sono un nazista e farò strada. Voi siete nati dopo, e forse pensate: io come avrei agito? Ma ve lo svelo io: avreste fatto come me». Un artificio, quello degli “a parte”, che costella tutta l’azione scenica e chiama in causa direttamente il pubblico: «Mi sono orientato al teatro documentario – prosegue Kehlmann – i miei personaggi escono più e più volte dal loro ruolo e con parole autentiche spiegano alla platea cosa sta accadendo o informano sul futuro esito di quel loro tentativo di fuga, chiariscono i rapporti, i contesti, le motivazioni del loro personaggio». Per evocare la St. Louis l’autore ha chiesto al regista Janusz Kica elementi minimi: «Non volevo un’ambientazione realistica. I cambi di scena avrebbero appesantito l’azione. Lo spazio vuoto permette invece allo spettatore di passare agevolmente con la mente dai ponti del transatlantico, all’isola Cuba, o ad altri luoghi, per poi tornare di nuovo sulla nave». Il pensiero vaga tuttavia anche attraverso i decenni e approda inesorabilmente nel Mediterraneo degli anni Duemila, cosicchè dopo 110 minuti senza tregua, scanditi da brevi, veloci scene, una volta calato il sipario i 32 attori e le 20 comparse vengono accolti dall’applauso di un pubblico che compatto si è alzato in piedi in segno di rispetto. «Le nuove migrazioni a cui assistiamo ai nostri giorni non sono un Olocausto. Ciò che mi preme dire con questo testo vi è però collegato e vorrei richiamarlo alla memoria: non credo si possa discutere dell’oggi prescindendo dal contesto storico. Ciò che successe qui non molto tempo fa provocò ingenti flussi migratori: per quelle ragioni storiche abbiamo una responsabilità e non possiamo ignorare chi sta fuggendo ora», chiarisce l’autore nato in Germania e cresciuto a Vienna, e che già in passato ha trovato parole inequivoche per criticare eventi e fatti di attualità. Da ultimo, il 25 gennaio, assieme al Premio Nobel Elfriede Jelinek e altri 200 intellettuali, scrittori e artisti austriaci, Kehlmann ha firmato una richiesta di dimissioni del ministro degli interni, Herbert Kickl, che due giorni prima in un’intervista in diretta su questioni riguardanti il diritto d’asilo, aveva sostenuto l’opportunità di mettere in discussione la convenzione europea sui diritti umani – «strane costruzioni giuridiche, nate in parte molti molti anni fa, da situazioni completamente diverse» -, aggiungendo che «è il diritto che deve seguire la politica e non la politica il diritto». Esternazioni che hanno suscitato incredula indignazione nell’opposizione e hanno prodotto un’immediata convocazione dal presidente della repubblica: «La convenzione europea sui diritti umani è legge di rango costituzionale da 60 anni in Austria – ha spiegato Alexander Van der Bellen – e ritengo che tutti i membri del governo ne siano consapevoli». Le successive ritrattazioni del ministro non hanno medicato lo strappo. Attorno alla questione immigrazione lo scontro è aperto: «Noi viviamo in democrazie funzionanti, – continua Kehlmann, attualmente di casa perlopiù a New York – ma oggi per la prima volta nella mia vita credo che nel mondo occidentale la democrazia sia in pericolo. E quindi vi sia molto da dire. Per ora non c’è bisogno di coraggio per dire ciò che si pensa. Ma naturalmente mi chiedo come sarebbe se ci volesse davvero coraggio per parlare».
Flavia Foradini, Il Sole 24 Ore Domenica, 10 marzo 2019