umiltà…

Questo Sabato, inizieremo a leggere il terzo libro della Torah: Vaikrà, chiamato “Torat Ha Cohanim” (la legge dei Sacerdoti) o “Torat ha Korbanot” (la legge dei Sacrifici).
In esso vengono contenute tutte le regole riguardanti la vita ed il comportamento dei Cohanim durante il loro servizio.
Nel libro sono inoltre descritti anche tutti i sacrifici che ogni ebreo doveva offrire nel corso della propria vita, siano essi fissi che occasionali, sempre attraverso i cohanim.
Molta curiosità desta il fatto che la prima parola con cui esso inizia sia scritta in un modo poco usuale nella Torah e cioè con la “alef” finale più piccola delle altre lettere.
Secondo l’opinione del Ramban il Nachmanide, questo dimostrerebbe che la Kabalà – opera della mistica ebraica – esiste sin dai tempi in cui è stata data la Torah e che vuole introdurre il popolo al suo studio in modo delicato, senza sconvolgimenti, attraverso quelle eccezioni che si incontrano in tutto il testo della Torah stessa e che riguardano la linguistica e le varie eccezioni ortografiche: ne rappresenta un esempio quella di scrivere una parola in un modo e di leggerla in un altro oppure quella di scriverla mancante di qualche lettera, od ancora, come nel caso specifico, quella di scrivere una lettera più piccola rispetto alle altre.
Il motivo sarebbe quello di dare un significato particolare a quel contesto rispetto al significato razionale.
Secondo il Ba’al Ha Turim (Rabbenu Ja’akov ben Asher) il motivo della diversità della scrittura avrebbe lo scopo di sottolineare come Mosè, guida indiscutibile del popolo ebraico, manifestava la propria umiltà davanti al popolo e davanti al Signore.
Insegna il Ba’al ha Turim, che proprio attraverso l’umiltà si vede il valore di un leader; infatti questi, nel raccontare episodi che lo riguardano, deve far in modo di non peccare di superbia e per quanto possibile, deve non far prevalere il suo “ego” rispetto agli altri.
Mosè, nel corso dei quarant’anni di vita nel deserto, più volte è stato chiamato direttamente dal Signore, davanti al popolo, ma questo non lo aveva fatto insuperbire, tantomeno fu per lui motivo di vanto.
Si racconta che nel dover esprimere il concetto di chiamata divina, egli si paragonò al falso profeta Bilam, a proposito del quale è detto “vaikkar el Bilam” “il Signore si rivolse a Bilam”
usando lo stesso verbo in forma però assai riduttiva.
Mosè fece la stessa cosa anche per se stesso, usando lo stesso verbo di Vaikrà, ma in forma riduttiva: ma il Signore gli comandò di scrivere il verbo con la “alef” finale, in quanto egli era meritevole di essere considerato alla Sua stregua.
Mosè, per dimostrare ancora una volta la propria umiltà, scrisse la “alef” ma la scrisse più piccola rispetto alle altre lettere dell’alfabeto.
Magari anche oggi ci si comportasse così…

Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna