Oltre l’orrore, dominio e paura
Proviamo ad andare oltre l’orrore e l’allarme suscitati dal doppio attentato di Christchurch. Proviamo ad affacciarci sullo sconvolgente video diffuso sui social dall’assassino e a dare una lettura di questa violenza totale. Che senso ha per un gruppo di suprematisti bianchi, cioè di nazisti convinti e attivi, uccidere decine di persone indifese in un luogo di preghiera?
Innanzitutto, seminare morte a piacimento appaga questi individui nel loro ego sconfinato, li porta a sentirsi dominatori assoluti delle vite altrui, a trovare conferma nello stesso omicidio collettivo alla propria presunta superiorità razziale e antropologica. L’autoappagamento alimenta e a sua volta è alimentato da uno stimolo a recidere il gruppo di “diversi” (considerati in blocco come “inferiori”) nel momento in cui manifestano la propria “diversità”: la preghiera è la fase in cui è più evidente l’espressione della differenza religiosa/culturale/etnica, quella su cui dunque si accentrano l’attenzione e l’impulso violento di chi vuole prepotentemente ribadire davanti al mondo la superiorità propria e del mondo bianco occidentale. Il disprezzo per la religione dell’ “altro”, tanto più forte quanto più è marcata la sua “alterità”, è particolarmente evidente nei confronti dell’Islam. Sulla pelle degli indifesi musulmani della Nuova Zelanda il terrorista ha probabilmente inteso lanciare una sfida all’intero mondo islamico, una sorta di nuova crociata in difesa dell’Occidente, come ci suggerisce il riferimento alla battaglia di Lepanto posto, con altre scritte rivelatrici, a firma dell’arma usata per compiere la strage; forse un tentativo di risposta – con lo stesso metodo omicida – alle stragi dell’ISIS.
Al di là, anzi a monte di questa carica di aggressività distruttiva emerge però una paura atavica, una vera e propria ossessione dell’invasione, un horror vacui di fronte al rischio fatale della perdita di identità, di quel senso di identità dominante che caratterizza il gruppo suprematista. La sconfitta della “superiore” civiltà bianca ad opera di “sottoculture” prodotto dell’immigrazione sarebbe per costoro una frustrazione intollerabile: forse è anche una reazione preventiva a un simile terrore a generare un radicale e criminale terrorismo. Un terrorismo allo stesso tempo ideologico e razziale, pronto a colpire la diversità dal modello bianco dominatore in qualunque forma si presenti, nel mondo afro-americano, nelle comunità islamiche, in quelle ebraiche (è evidente l’affinità dell’attentato di venerdì scorso con quello di qualche mese fa nella sinagoga conservative di Pittsburgh).
Che fare di fronte al rischio del moltiplicarsi di gesti simili, ad opera di schegge razziste e criminali (ma sempre più organizzate e sempre più liberamente armate) nelle società occidentali? Un antidoto mi pare non isolare le singole comunità che emergono come possibili bersagli di epurazioni razziste. La creazione di vincoli di solidarietà tra gruppi diversi, la promozione di iniziative collettive basate sul dialogo, sul coinvolgimento culturale e aggregante sono direttrici che possono dare forza non solo ai nuclei che si trovano sotto tiro ma all’intera società, ampliando le sue competenze e le sue interazioni, rinsaldando le sue capacità di risposta ai problemi strutturali e all’emergenza. Più difficile se non impossibile prospettare un’azione di destrutturazione mirata o, addirittura, di intervento formativo nei confronti delle cellule suprematiste. È quasi impossibile smontare e rovesciare il pregiudizio. Sarebbe già molto importante una effettiva ed efficace azione di controllo/prevenzione/repressione da parte degli organi di polizia. E forse non sono solo la lontana società americana o la lontanissima società neozelandese ad avere necessità di più puntuali indagini negli ambienti dell’ultradestra.
David Sorani