Machshevet Israel – Rav Shagar e i dilemmi della traduzione
Nella sua ultima rubrica Il Sabbatico in onda su RaiNews ogni sabato sera, Alberto Melloni ha dato voce al filosofo della scienza Giulio Giorello per raccomandare tre libri: l’Ulisse di James Joyce (24 ore della vita dell’ebreo irlandese Leopold Bloom), l’Etica di Spinoza e Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione, appena edito da Il Mulino, definito un “libro di civiltà”. Non certo libri di intrattenimento popolare. Dei primi due Giorello ha segnalato specifiche traduzioni, delle molteplici in circolazione, e dell’Ulisse ci ha tenuto a dire di averlo letto nell’originale inglese (of course). A rincalzo Melloni, annunciando una nuova fase del Sabbatico che d’ora in avanti esplorerà il lessico del mondo religioso, ha ragionato sull’importanza del lemma ‘traduzione’, riferendosi anzitutto ai testi sacri: la Septuaginta, la Vulgata, la Bibbia di Lutero… Temi difficili da divulgare. Tuttavia, scelta pedagogica stimolante, che dà a pensare. Chi legge in traduzione spesso non pensa di “leggere in differita” ed è giusto ricordare che tradurre un testo sacro dall’ebraico significa accettare una serie di rischi, primo tra tutti la riduzione della polisemìa intrinseca alla lashon ha-qodesh, alla lingua del sacro/santo, e che dunque l’impoverimento dei significati è il prezzo da pagare alla comprensione per chi quella lingua non conosce perdendo tutto se non venisse tradotta. La filosofia del Novecento ha molto elaborato sul tema del linguaggio e quello relativo della traduzione: Heidegger, Gadamer, Ricoeur, George Steiner… Ma il pensiero ebraico non è stato zitto: penso non solo a Rosenzweig, Benjamin e Levinas, ma soprattutto a Rav Soloveitchik e a Rav Shagar.
Di Soloveitchik è nota la sua refrattarietà all’idea che l’esperienza religiosa di una comunità sia trasportabile, cioè traducibile, nel linguaggio e nelle categorie forgiate da e per un’altra, diversa sfera religiosa. Di Shagar – Rav Shimon Gershon Rosenberg – non è stato (ancora) tradotto nulla in italiano dall’ebraico, la sua madrelingua, e forse ben pochi ne hanno sentito parlare. È un rabbino israeliano, rosh beth midrash e sionista religioso, prematuramente scomparso nel 2007 a soli 58 anni, figlio del sistema delle yeshivot, il quale, dall’interno di questo mondo è stato capace di un radicale e innovativo confronto intellettuale con gli esponenti del post-modernismo filosofico europeo. Per quanto strano suoni, ha cercato di combinare Maimonide con Wittgenstein, Rav Kook con Lacan, Rabbi Nachman di Breslav con Baudrillard e Derrida… fondendo in una sintesi personale e quasi provocatoria chassidismo e decostruzionismo. La sua ipotesi di fondo è che il post-moderno, lungi dall’essere ‘nemico della fede’, offra al contrario una straordinaria opportunità per il giudaismo di valorizzare, entro certi limiti, la soggettività individuale che spesso proprio alcuni modi di vivere l’ortodossia tendono a negligere e a frustrare.
Riflettendo sulla festa di Chanukkah, quando il confronto con la cultura greca è dirimente, Rav Shagar riprende un insegnamento di Rabbi Nachman, pronipote del Ba’al Shem Tov, là dove equipara la lingua della traduzione al biblico albero della conoscenza del bene e del male, che sta a metà (“è intermediario”) tra la lingua sacra e le lingue idolatriche delle settanta nazioni. E come l’albero edenico offre il bene e il male, così una traduzione può essere fruttuosa (maskalet) come la donna saggia di cui parlano i Proverbi oppure deprivata di frutto (meshakel) come chi abbia perso un figlio. Il gioco di parole in ebraico è intenso: la stessa radice sin-kaf-lamed può significare intelligenza e comprensione, ma può indicare anche un abortire, la perdita di ciò che si ha in grembo. Chi traduce – ogni traduzione – può consegnare il senso originario ma può anche tradirlo, disperderlo, renderlo vano. Commenta Rav Shagar: “Il linguaggio della traduzione nasce nel peccato, il peccato connesso all’albero del bene e del male, nel quale esso si congeda e prende le distanze dal linguaggio della temimut, dell’integrità (innocenza e semplicità). Esso può aiutare a meglio penetrare la santità o, al contrario, può offuscarla”. Il genio dello tzaddiq di Breslav, secondo Rav Shagar, sta nell’aver combinato, nelle sue derashot e nella vita, molteplici mondi. Come uno tzaddiq deve scendere nella mondanità per portare luce e poter poi salire di nuovo nella santità, così il traduttore deve scendere in lingue aliene e in categorie persino pericolose, deve correre il rischio di sporcarsi e sporcare la bellezza originaria, per amore della condivisione, e solo allora potrà esperire il senso vero dell’ascesa alla lingua santa. Per Rav Shagar il sionismo religioso è un esempio di questa combinazione di livelli, un rischio da correre per non restare nel vuoto – nell’aborto storico – della separazione dei mondi: ad esempio, in un charedismo senza amore per la nazione oppure in uno studio della Torà reso sterile dal mancato incontro/confronto con la scienza e il proprio tempo. Quando invece questo incontro/confronto avviene, ecco nascere una nuova religiosità ebraica fedele alla tradizione halakhica ed empatica verso la soggettività individuale. Difficile? Non più difficile di leggere Joyce o Spinoza.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici UCEI