JCiak – Fuga da Addis Abeba

La drammatica aliyah degli ebrei etiopi è ancora tutta da raccontare. Film come Vasermil (2007) di Mushon Salmona, Red Leaves (2014) di Bazi Gete e, nei circuiti internazionali, Vai e vivrai (2005) di Radu Mihaileanu (Train de vie) hanno acceso i riflettori sulle difficoltà a integrarsi nella società israeliana. E se Lady Titi di Ester Almo Wexler, appena presentato in anteprima, rilegge questa realtà in chiave di commedia, la vita in Etiopia negli anni che hanno preceduto la fuga è però finora rimasta nel vago. A colmare questo vuoto arriva ora nei cinema in Israele Fig Tree – Ez Tana diretto dalla scrittrice-regista di origini etiopi Aalam-Warqe Davidian. Vincitore dell’Eurimages Audentia Award al Toronto International Film Festival, Fig Tree è una drammatica storia d’amore sullo sfondo della guerra civile che nel 1989 sconvolge l’Etiopia.
Al centro del racconto, la sedicenne Mina (Betalehem Asmamawe), ebrea, innamorata di Eli, un ragazzo cristiano (Yohanes Muse) che per sfuggire al reclutamento nell’esercito del dittatore Mengistu si nasconde su un albero di fichi.
L’amore fra i due fiorisce sullo sfondo di una natura lussureggiante, in un’atmosfera poverissima e satura di violenza. “La vita qui è un inferno e dobbiamo sconfiggerlo”, dice uno dei personaggi a Mina. A simboleggiare la crudeltà di quella vita, il soldato che i due adolescenti trovano ai piedi del loro albero. Già menomato, ha tentato di impiccarsi ma è sopravvissuto per collassare infine sotto gli occhi indifferenti del villaggio .
A sottrarre Mina a quella situazione sarà la madre di lei, già rifugiatasi in Israele, che da lì organizzerà la fuga della ragazza e di suo fratello. Stretta fra l’amore per Eli, la famiglia e l’appartenenza identitaria, Mina sarà costretta a una scelta difficile.
Girato in amarico con attori non professionisti, il film si ispira all’infanzia della regista e ricrea, con dettagli straordinari, la vita quotidiana nell’Etiopia di quegli anni – dai ricami tradizionali con cui la nonna di Mina (Weyenshiet Belachew) mantiene la famiglia al gruppo cristiano in cui canta Eli.
È uno squarcio di mondo disperato che risalta, grazie a un’impeccabile fotografia, nel contrasto con una natura magnifica. L’inferno non si può sconfiggere, sembra dirci la regista, ma l’orizzonte della speranza è sotto i nostri occhi.

Daniela Gross

(21 marzo 2019)