Il termine ebreo
Un giornalista viene apostrofato per la strada con un ‘ebreo’. Maria Giovanna Maglie non riconosce che gli ebrei abbiano il diritto di parlare e dire la propria sul governo come ogni altro italiano, forse non sa che gli ebrei che vivono in Italia sono italiani, anche se immigrati di antica generazione. Giorgia Meloni, erede dell’idea fascista, fa un manifesto contro Soros in cui lo definisce ‘usuraio’ – e si dimentica, Giorgia Meloni, o non conosce, quali vicende storiche abbiano costretto gli ebrei a fare gli ‘usurai’, e chi le abbia costruite quelle vicende storiche. E non si sognerebbe mai, Giorgia Meloni, erede del fascismo, di accusare di ‘usura’ le banche e i banchieri cui fanno capo. E se lo facesse ricorrerebbe certamente alla fonte delirante di Ezra Pound, poeta antisemita prediletto. Ma l’ebreo che si occupa di finanza è, per lei, un usuraio, ebreo per natura, ed usuraio per natura.
E noi ci interroghiamo se sia un’offesa dare dell’ebreo a un ebreo. Forse è un complimento, forse è solo una denotazione, perché, è vero, un ebreo è certamente ebreo. E dunque non può che essere giusto e naturale, se per la strada incontro un amico non ebreo, richiamare la sua attenzione con un ‘ehi, cristiano’.
Il termine ebreo lo si sta usando in modo ormai indiscriminato, a fini politici, per indicare l’estraneo, colui che non appartiene. Forse l’ebreo non è neppure italiano (dice la Maglie), anzi, forse è un usuraio (dice la Meloni), ossia un nemico del popolo.
Per me, è ovvio, essere ebreo non è affatto un’offesa. Ne sono sempre stato fiero. Esserlo chiamato da altri lo può tuttavia diventare, perché tutto dipende dall’intenzione di chi la mia ebraicità me la ricorda come se fosse una macchia sulla mia altrimenti immacolata identità di italiano. Un italiano cui viene rimproverata la colpa di essere diverso dagli altri, ebreo, per l’appunto. Forse per qualcuno io sono una quinta colonna all’interno del puro popolo dei sovranisti.
Non mi sono mai vergognato di essere ebreo, né di farlo sapere ai miei interlocutori. Anzi, l’ho sempre comunicato io per primo anche senza esserne richiesto. Una sorta di azione di contropiede, messa in atto per farlo sapere a chi ti sta di fronte ed evitare, quanto meno, che ti racconti la solita idiota barzelletta antisemita. E non è che non sia mai capitato con certe inconsapevoli nuove conoscenze. Coda di paglia? Può essere. È certo che ti risparmia sgradite coliche epatiche.
Forse, come ebreo, soffro di ipersensibilità. È vero, e non ho esitazione a confessarlo. Sono ipersensibile. Ipersensibile al razzismo, ipersensibile al pregiudizio, e ipersensibile di fronte all’idiozia di chi, anziché considerarmi per la mia simpatia o per la mia antipatia, per la mia intelligenza o per la mia stupidità, per il mio valore o per le mie incapacità, per la mia onestà o per la mia immoralità, per il mio razzismo o per il mio rispetto dell’altro, mi considera, e me ne fa una colpa, solo per il tratto della mia immutabile diversità. Di me, anziché considerare la qualità, come per ogni altro essere umano, si considera l’imprescindibile sostanza.
È ovvio che, di fronte a questa manifestazione di razzismo, qualsiasi sia la mia distanza ideale, culturale, politica da Gad Lerner, non posso che esprimergli la mia solidarietà di ebreo. A questo punto, mi spiace per chi dissente, non esistono distinguo. Se schiaffeggiano un ebreo per il suo essere ebreo io sono al suo fianco. E non posso non ricordare a chi non condivide questa posizione che durante il fascismo, quello vero e storico, è con queste modalità che gli ebrei vennero messi all’indice della società e, poi, del consesso umano. Anche allora avremmo potuto affermare: ‘Ma ‘ebreo’ non è un’offesa’.
Ebreo era la stella gialla sul nostro petto, che vi fosse o non vi fosse stata materialmente cucita.
Ricordiamoci delle barzellette sugli ebrei: se le racconto io fra amici ebrei ci fanno ridere, sono la valvola di sfogo che disarma e neutralizza il pregiudizio degli altri. Ma se mi vengono raccontate da un altro perdono tutta la loro carica umoristica e si limitano a confermarne il pregiudizio.
Dario Calimani, Università di Venezia
(26 marzo 2019)