La Diaspora e Israele
Che peso hanno all’interno di quel variegato ambito che prende il nome di pensiero ebraico (letteralmente pensiero di Israele – Mahshevet israel) i rispettivi poli di diaspora, esilio (galut), terra e stato di Israele? Che rapporto sussiste tra pensiero ebraico e filosofia? Interrogativi di tale genere si rinnovano, con declinazioni differenti, nel tempo e nei diversi contesti (geografici e intellettuali) in cui il pensiero ebraico prende forma. Così è avvenuto in una recente conferenza tenutasi a Bar Ilan dove gli interventi di Shmuel Trigano e Hanoch Ben Pazi forniscono del materiale su cui riflettere e prendere posizione. Trigano ha dedicato il suo intervento all’École de pensée juive de Paris tratteggiando il ruolo giocato dalla diaspora nell’economia del pensiero ebraico. Ruolo determinato (anche) dalla “normalizzazione” della condizione del popolo ebraico di cui parte del sionismo si voleva vettore. I membri dell’École de Paris percepivano così (siamo nel secondo dopoguerra) “uno scarto tra l’Israele ruhanit, spirituale, e l’Israele concreta”, ossia tra l’idea di Israel e la realtà ordinaria dello Stato di Israele. Ed è in ragione della “normalizzazione”, continuava il filosofo francese, che l’École si sarebbe sviluppata proprio a Parigi e non nelle università dello stato dove il popolo ebraico, come collettività, ritrovava forza e vita. La scuola di Parigi – chiosava – non ha ancora esaurito il proprio contributo: fornire un punto di vita filosofico, o appunto “ruhanit”, spirituale, all’avvenuta rinascita di lingua e sovranità ebraica in terra di Israele. In questa prospettiva la diaspora – nello specifico francofona – sarebbe deputata a giocare un ruolo propulsivo al fine di controbilanciare la tendenza alla normalizzazione. Diversamente l’intervento di Ben Pazi, docente a Bar Ilan, si concentrava sui rapporti tra Israel e le genti: “cos’ha da dire” – si chiedeva riprendendo l’interrogativo già di Buber – “l’ebraismo all’umanità”? Interrogativo che assume particolare rilievo posto che gli ideali umanistici avevano (e hanno) messo in luce la possibilità di una radice altra, rispetto al monoteismo, per l’affermarsi di principi etici fondamentali. Il sionismo, nell’ottica di Buber, trova la propria ragion d’essere nel garantire quella rinascita spirituale che permetta al popolo ebraico di fornire un rinnovato contributo all’umanità. Un sionismo condizionale, dunque. E, si noterà, scettico nei confronti della ‘normalizzazione’ di cui sopra. I due interventi sembrano incontrarsi nell’istanza secondo cui il popolo ebraico abbia un peculiare compito da svolgere. Compito che non sembrerebbe poter assolvere senza un rapporto con un termine a Israel in qualche misura esterno: o perché, con la diaspora, esterno allo stato di Israele o perché, con le genti, esterno al popolo ebraico in quanto tale. Alcuni interrogativi sorgono. Anzitutto, dovendo accettare questo scenario, rimane da intendere il contenuto del ruolo attribuito a Israel. È questo costituito da ciò che indica la Tradizione (in questo caso il pensiero ebraico è deputato ad analizzarne le nozioni) o siamo di fronte a una dialettica via via autonoma da questa (in tal caso il pensiero ebraico offre, attraverso il contatto con la filosofia, materia inedita)? Inoltre appare problematica l’idea che tale ruolo sia da intendersi quale antitetico alla ‘normalizzazione’. Nell’attenzione riposta verso la vita ordinaria – non fosse che per diffidarne – emerge in che misura ciò che è pensiero ebraico sia legato alla condizione di vita del popolo ebraico. Legame che ha il pregio di aprire un contatto diretto tra condizione storica e riflessione astratta. Tuttavia legame in virtù del quale si rischia di sovrapporre le proprie esigenze teoretiche (o spirituali, come nel caso degli accenti messianici ricorrenti nell’intervento di Trigano) a quelle materiali. Un nodo, quello che intreccia piano materiale e ideale, radicato al cuore stesso dell’ebraismo: si è ebrei tanto per condizione materiale – trovarsi all’interno di una famiglia e di un popolo – quanto per condizione formale – la Tradizione, con i suoi ideali e prescrizioni. Forse la sfida, che ognuno quotidianamente affronta, è tenere insieme i due piani, piuttosto che voler scindere tra un polo puramente ideale e uno meramente materiale.
Cosimo Nicolini Coen
(31 marzo 2019)