Proibizionismo dell’intelligenza

Nei giorni scorsi una rappresentazione de «le supplici» di Eschilo, un classico del teatro greco messo in cartellone alla Sorbona, è stata cancellata all’ultimo momento dalla programmazione dopo l’intervento di alcuni vivaci contestatori. Costoro, organizzati nella Lega di difesa nera africana, nel Consiglio di rappresentanza delle associazioni nere di Francia e dall’Unef, l’Unione nazionale degli studenti francesi, hanno obiettato agli organizzatori che la rappresentazione – che sarebbe stata realizzata con rigore filologico, ossia adottando le pratiche di scena dell’antichità ellenica e quindi usando delle maschere nere per raffigurare le danaidi, provenienti dalla Libia e dall’Egitto e considerate nella mitologia le progenitrici della Grecia – avrebbe in tale modo avuto un carattere «razzista». Da ciò, ed è questa la vera notizia, la decisione da parte degli organizzatori medesimi di stralciare l’evento dal programma, altrimenti già licenziato e pubblicizzato. Evidentemente per non incorrere in polemiche sgradite e, plausibilmente, anche alle minacce di sanzioni. Al di là del solo fatto in sé, di portata limitata per gli effetti concreti – quasi aneddotico, per certi aspetti – ma dal valore simbolico che va ben oltre la sua stretta cornice, forse varrebbe la pena di fermarsi un attimo a ragionare sugli stati di alterazione e di allucinazione progressivi che stanno attraversando le nostre società. Ad una globalizzazione senza volto e, soprattutto, priva di una guida che non sia quella esercitata da chi ne beneficia immediatamente, ed in soldoni, a titolo rigorosamente personale o di corporazione ristretta, si accompagnano, nel resto delle comunità nazionali, risposte tanto angosciate quanto spesso demenziali. I temi del rispetto delle differenze, della loro integrazione in un sistema democratico fondato sul pluralismo, così come quelli dell’uguaglianza di opportunità e della lotta alle diseguaglianze sociali, non possono ridursi ad una pantomima dei diritti collettivi. Quest’ultima, infatti, scimmiottando la rivendicazione dell’estensione del campo delle libertà, in realtà produce interdizioni e divieti asfissianti. Tanto più insopportabili in quanto non solo incongrui ma destinati ad incentivare, in prospettiva, la loro infrazione. Impedire una rappresentazione teatrale poiché, rifacendosi con rigore ai canoni espressivi ed interpretativi dell’epoca in cui l’opera veniva originariamente messa in scena, si compirebbe così un gesto razzista, è un vero e proprio cortocircuito dell’intelligenza. Il quale non risponde solo alla maniacale infatuazione per la propria visione del mondo che i chiassosi contestatori esprimono, erigendo a regola generale ciò che invece è solo una proiezione dei loro pensieri, ma anche al presupposto patologico per cui il rispetto di una tale visione particolare delle cose del mondo (il ricorso a certi criteri di rappresentazione teatrale vigenti nel passato costituirebbe, nell’oggi, un esercizio “razzista”) dovrebbe sopravvanzare sempre e comunque l’interesse generale (in questo specifico caso il potere assistere a tale rappresentazione, ovviamente conoscendo e comprendendo la contestualizzazione dei suoi contenuti e delle modalità in cui viene realizzata). Il tutto, a prescindere da qualsiasi equilibrio tra i molti diritti di cui sono intessute le nostre società. Non stiamo facendo un discorso da accademici, da giuristi, da «professoroni», da «parrucconi». Si tratta semmai del rimando, ancora una volta, ad un concreto problema: dove si collocano i punti di mediazione tra interessi e identità diverse in società pluraliste? Non di meno: non sta avvenendo un pericolosissimo slittamento, laddove gruppi di pressione – non importa quanto minoritari ma comunque in evidente tensione con il resto della popolazione – stanno trasformando la loro legittima richiesta di riconoscimento e rispetto in una sorta di implacabile richiesta di vaglio preventivo e di ricorso al potere di veto rispetto alla libera espressione della collettività? Questi ed altri simili quesiti sono di assoluta attualità, tanto più in società sempre più meticce (piaccia o meno che stiano diventando tali) quali quelle europee. In gioco, infatti, c’è il significato della cittadinanza, ossia della condivisione di un comune spazio pubblico, a partire da quello politico, senza che questo si trasformi in una sorta di agone conflittuale di gruppi chiusi in se stessi e nel loro ottuso particolarismo, fatto passare surrettiziamente per l’universalità di un diritto insindacabile. L’accusa di essere razzisti, a partire dal linguaggio e dalle “messe in scena” (non a caso il teatro è da sempre una buona metafora della vita quotidiana), va sempre corredata da riscontri condivisibili. Altrimenti, oltre alla sua evidente pretestuosità (che equivale alla sua sostanziale falsità), rivela la sua autentica radice, quella di vietare la libertà di espressione nel nome di una visione tanto tassativa quanto egocentrica (io ed il mio gruppo, il resto non conta!). Rivendicando, in tale modo, di fare legittima igiene della parola e delle condotte, quando invece le si reprime dentro una camicia di forza. Poiché certe devianze del “politicamente corretto”, fingendo di volere tutelare le differenze altrimenti disconosciute, in realtà asfaltano la strada all’illiberalità di una società basata sulle costrizioni, le autocensure, gli interdetti e le messe in mora. Così non ci siamo proprio. Per nulla.

Claudio Vercelli

(31 marzo 2019)