Israele, dopo le elezioni
Le prossime elezioni in Israele rappresentano, evidentemente, un passaggio importante non solo per i cittadini di quello stato, e per tutti coloro che ad esso si sentono, a vario titolo, legati, ma anche per i generali equilibri politici internazionali, non solo del Medio Oriente. Logico, quindi, che i mezzi d’informazione dedichino a tale evento un’attenzione notevole, assai superiore a quella che meriterebbe un evento analogo in un qualsiasi altro stato di analoghe dimensioni e altrettanto numerosa popolazione.
Molti partecipano o seguono le vicende elettorali, in questo o quel Paese, con sentimenti di più o meno pronunciato ‘tifo’, sperando che prevalgano alcune forze su altre, e che l’esito della competizione sortisca determinati effetti sull’assetto della nazione interessata. In momenti di aspra radicalizzazione della contesa politica, poi – come accade oggi, purtroppo, in molte aree del mondo -, questo tifo raggiunge picchi particolarmente alti, tendenti a sfociare anche in manifestazioni di intolleranza, odio, violenza – fisica o verbale -, delegittimazione o criminalizzazione dell’avversario. Tutte cose che non mi appartengono, che non mi sono mai piaciute. Per me le elezioni sono un momento essenziale e fondamentale per la democrazia, ma non contano tanto per il loro esito, per i nomi dei vincitori e degli sconfitti, quanto per l’insieme del loro processo: la qualità dell’informazione, la vivacità del dibattito, la libertà di manifestazione, l’ampiezza della partecipazione, la civiltà del confronto, il comune impegno per costruire un futuro migliore. Perché una democrazia merita pienamente questo nome solo se chi perde non ha niente da temere, e se chi vince non si considera un vincitore, ma il servitore di una causa comune, al servizio di tutti.
È questo quello che conta, ed è questo che rende forte e ammirevole la democrazia d’Israele. Un Paese erede di una millenaria tradizione di libero scambio intellettuale, di libertà di opinione, di rispetto per la persona umana: di tutti quei valori essenziali che – coltivati, in mille differenti lingue, nei lunghi secoli della diaspora, nei più disparati angoli della terra – sono poi andati a confluire nella nuova, antica patria del popolo ebraico.
Anche stavolta, perciò, non faccio il tifo per nessuno, se non per la stessa democrazia israeliana, che è chiamata a dare di nuovo prova del suo vigore e della sua energia. Ritengo, però, che il mio consueto ruolo di semplice elogiatore e ammiratore di tale democrazia possa apparire, oggi, per certi versi, insufficiente, in quanto mi sembra che anch’essa sia minacciata – difficile dire in che misura -, al di là dei ben noti, consueti nemici esterni, anche da non poche insidie interne, capaci di erodere o intaccare, in qualche misura, la qualità della vita democratica del Paese. Si tratta di insidie che conosciamo bene, perché sono molto diffuse in gran parte dell’Occidente, e segnatamente in Italia. E vederle serpeggiare – forse marginalmente, non so – anche in Israele è motivo di grande amarezza per chi ha speso buona parte della propria vita a sottolineare la diversità morale di quel Paese.
Non mi importa, quindi, chi vincerà. Ma, chiunque vinca, o perda, vorrei che tutti si ricordassero che Israele non solo è la nazione di tutti i suoi cittadini, e la patria potenziale di tutti gli ebrei del mondo, ma anche un punto di riferimento per tutti coloro che hanno a cuore i valori di libertà, pace, giustizia, stato di diritto, umanesimo, rispetto della persona umana, tutela della Memoria, costruzione di civiltà. Un Paese che non si deve mai identificare – come nelle dittature – con la fotografia di un leader, dove il ‘capo’ non ha bisogno di essere osannato, dove ogni singola voce conta ed è importante, nessuno va lasciato indietro e nessuno è al di sopra della legge. Un Paese dove la completa libertà di espressione e di stampa e l’assoluta indipendenza della magistratura vanno custoditi come beni preziosi e non negoziabili, e dove ogni pallida ombra di razzismo deve essere bandita nel modo più fermo e rigoroso.
È questo che mi aspetto da Israele, dopo le elezioni, e mi aspetto che tutto ciò sia realizzato e promosso non solo da chi vincerà, ma da tutti coloro che, dentro e fuori il Paese, lo amano davvero.
Francesco Lucrezi, storico