Gerusalemme, il Papa
e il re del Marocco
Il Re del Marocco Mohammed VI e Papa Francesco hanno firmato insieme un appello su Gerusalemme sul cui significato si sono volute dare varie interpretazioni. Sarebbe opportuno chiarire preliminarmente se nel firmare questo appello Re Mohammed e Papa Francesco hanno agito come capi spirituali o come sovrani temporali. Infatti il re del Marocco è anche un leader religioso, in quanto si ritiene discendente diretto del Profeta; e il Papa è tornato ad essere anche un sovrano temporale con il Trattato concluso con l’Italia l’11 febbraio 1929.
A una lettura letterale dell’appello, sembra che esso appartenga esclusivamente alla sfera religiosa. In esso si parla infatti di “preservare la Città Santa come patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica, in cui coltivare il rispetto reciproco e il dialogo”. Si auspica, di conseguenza, che “nella Città santa siano garantiti la piena libertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto di ciascuna di esercitarvi il proprio culto”. Se si tratta solo di questo, niente di eccepire; si potrebbe solo obiettare che si tratta un appello superfluo, perché da quando la città di Gerusalemme è stata riunificata sotto la sovranità israeliana tutte le condizioni a cui si riferisce l’appello sono pienamente in atto, cosa che non si può dire che avvenisse prima del 1967.
Ma da parte di alcuni commentatori l’appello è stato accostato al recente riconoscimento da parte degli Usa di Gerusalemme come capitale di Israele o addirittura alle prossime elezioni israeliane; ed è stato perfino è stato interpretato come una dichiarazione a favore di una internazionalizzazione di Gerusalemme, cioè di un ritorno a quella Risoluzione n. 181 del 27 novembre 1947 dell’Assemblea generale dell’Onu che prevedeva non solo la divisione del mandato britannico sulla Palestina in due Stati – uno arabo e l’altro ebraico – ma anche la creazione di un’entità internazionale sotto amministrazione Onu che doveva comprendere un territorio più ampio della sola città di Gerusalemme e dintorni, fino a inglobare anche Betlemme.
Non va dimenticato che la Santa Sede ha sempre considerato – anche quando, dopo decenni, ha deciso di riconoscere diplomaticamente lo Stato d’Israele – questa soluzione come la migliore, dal suo punto di vista. Ma non si può nemmeno dimenticare che essa è stata sepolta sotto i colpi degli eventi storici che si sono succeduti dal 1947 ad oggi: primo tra tutti l’immediato rifiuto arabo di accettare la Risoluzione n. 181, poi la guerra che è immediatamente seguita a questo rifiuto; alla conclusione della guerra, l’annessione da parte della Giordania della Città Vecchia di Gerusalemme e di tutta la sua parte orientale; infine il trattato di pace stipulato tra Israele e Giordania il 26 ottobre 1994 che ha sancito ciò che la Giordania stessa aveva già deciso unilateralmente nel 1988, cioè la rinuncia ad ogni suo diritto sulla Cisgiordania. Gli stessi accordi di Oslo del 1993 hanno avuto come conseguenza il passaggio di Betlemme sotto l’amministrazione palestinese, seppellendo definitivamente – insieme al trattato di pace tra Israele e Giordania – ogni traccia della risoluzione n. 181.
Oggi, sotto la sovranità israeliana, i Luoghi Santi di Gerusalemme godono di una condizione quale mai si era verificata in passato: i luoghi cari alla tradizione cristiana sono pienamente accessibili a tutte le confessioni e le correnti che si richiamano al cristianesimo; il luogo santo gerosolimitano considerato tale per eccellenza dai musulmani – cioè la Spianata delle Moschee, che per gli ebrei è il Monte del Tempio – è gestito da un organismo giordano (Waqf) e i fedeli islamici vi hanno libero accesso e piena libertà di culto; caso mai ci sarebbe da osservare che la stessa condizione non è garantita agli ebrei, ai quali non è permesso pregare nel luogo nel quale sorgeva il secondo Tempio. E’ una situazione ben diversa da quella che esisteva al tempo del controllo giordano – dal 1948 al 1967 – quando il quartiere ebraico fu quasi interamente distrutto e lo stesso accesso degli ebrei al Kotel (Muro del Pianto) reso estremamente difficoltoso.
È bene quindi troncare sul nascere ogni maliziosa interpretazione dell’appello del Papa e del Re del Marocco (come fa per esempio “Il Messaggero” di lunedì 1° aprile, titolando «Papa Francesco e il re del Marocco firmano un accordo: “No a Gerusalemme capitale d’Israele”» – Un virgolettato di cui non si trova traccia nell’appello; e con “Il Messaggero” molti altri quotidiani), lasciandolo nel suo ambito proprio, cioè quello esclusivamente religioso. Una interpretazione che, tra l’altro, favorirà la continuazione e l’approfondimento dei rapporti politici, economici e culturali tra Israele e i Paesi arabi moderati, tra i quali il Marocco svolge un ruolo rilevante; senza dimenticare che il Marocco è l’unico Paese islamico nel quale esiste ancora una consistente presenza ebraica.
Valentino Baldacci
(4 aprile 2019)