I pericoli della mistica

massimo giulianiLa mistica, ogni mistica (anche quella ebraica), si sa, è un terreno minato. Che vuol dire pieno di rischi e pericoli, di ambiguità e fraintendimenti, di potenziali idolatrie. La ragione è semplice: pretendendo di avere un accesso al sacro immediato (letteralmente senza mediazioni) e ab-soluto (ossia libero da regole e vincoli), il mistico si espone al rischio di manipolare il sacro stesso, credendo di poterne disporre e poter bypassare le precauzioni e limitazioni che le norme della ‘religione’ impongono. Tuttavia, si dà forse mistica senza questo osare, senza desiderio di avvicinarsi al divino andando oltre limiti e divieti? Del Ba’al Shem Tov – o meglio, nelle di lui agiografie che vennero scritte nei decenni dopo la sua morte – si narra che fu sollecitato dal figlio di Rabbi Adam (il ba’al Shem che consegnò gli scritti segreti del patriarca Abrahamo al fondatore del chassidismo) a evocare con lui, sulla base di quegli scritti, il Principe della Torà. Ma poiché l’animo del figlio di Rabbi Adam non era puro, la formula fece apparire invece il Principe del fuoco e poco mancò che tutta la città fosse bruciata. Al secondo tentativo, dopo aver scongiurato il Ba’al Shem Tov di riprovare, il povero ragazzo ne morì (“e fu seppellito con grandi onori”). Così leggiamo nei Racconti dei chassidim di Buber. Il titolo ba’al Shem è equivalente, nella prassi ebraica est-europea della prima modernità, al titolo di mago e guaritore. Dal Rinascimento in poi si diffuse l’idea che Mosè fosse il primo e il più abile dei maghi e degli alchimisti e che l’ebraico fosse una lingua degna dei più esoterici segreti. La simbologia massonica è piena di questi rimandi. A dispetto del dettato della Torà, che condanna divinazione, negromanzia e pratiche magiche, la tradizione ebraica fu associata a sapienze esoteriche e misteri egizi.
Moshè Idel ci ha aiutati in questi anni a trattare in modo disincantato e scientifico (ossia storico-comparativo) questi fenomeni, presenti anche nel variegato mondo della qabbalà e del chassidismo. Per Idel è importante distinguere tra teurgia e magia. La prima è la convinzione che noi, umani, si possa influenzare la sfera del divino: se non vi si credesse, molte liturgie e preghiere sarebbero senza senso. La seconda, invece, la magia, è la pretesa di attrarre il divino nella sfera umana, di evocarlo a piacimento quando e come noi si vuole. La teurgia ha un moto ascensionale, la magia discendente. Il fatto è che nella letteratura qabbalistica si trovano entrambe, con non poco imbarazzo da parte di chi la religione la vive in modo sobrio e razionale, attenendosi alle mitzwot che tutto sono tranne che una prassi magica. Proprio per evitare una deriva miracolistico-magica, uno degli ultimi discepoli del Ba’al Shem Tov (quel tov indica che era diverso da tutti gli altri ba’alè Shem del suo tempo), Shneur Zalman di Liadi – vero capostipite della dinastia di Lubavitch – “diede vita a una corrente chassidica di tipo intellettualistico e più ancorato alla scala medievale di valori tipica degli scritti filosofici, in cui si affermava la superiorità del pensiero sull’azione e, in conseguenza di ciò, si privilegiava la teurgia e l’influenza mistica sul divino rispetto alla magia e all’attrazione del divino verso il basso”. Così Idel in: Catene incantate. Tecniche e rituali nella mistica ebraica, Morcelliana 2019, pp.173-174. Superiorità del pensiero sull’azione? Ma il giudaismo non è anzitutto uno ‘stile di vita’ nel quale il na’asè (faremo) precede il nishmà (ascolteremo, ci interrogheremo, discuteremo a livello intellettuale)?
Resta un fatto che la Torà mette in guardia da atteggiamenti disinvolti e spontanei, quando si tratta di rapportarsi al sacro. La parashà Sheminì letta lo scorso Shabbat narra la morte di Nadav e Avihu, figli del sommo sacerdote Aronne, fulminati dal fuoco di un sacrificio non prescritto, offerto per così dire spontaneamente. Nell’haftarà della stessa parashà di ascolta la storia di Uzzà, figlio di Avinadav, che toccò l’arca santa pur con buone intenzioni (non voleva che cadesse dal carro!) e nondimeno fu a sua volta fulminato. Pagine difficili del Tanakh, che ci ricordano come avvicinarsi al sacro sia ad un tempo necessario e pericoloso, ma pericoloso solo quando si esce dal prescritto, dalla via maestra, dall’halakhà, o quando prevale il soggettivo del bisogno (individuale) sull’oggettivo della norma (comunitaria). Il guaio è che la linea che distingue e separa bisogno e norma, iniziativa privata e servizio comunitario, religiosità spontanea e osservanza halakhica è sottile, così come sottile è il confine che separa teurgia e magia, emunà e superstizione, fede e fideismo. Forse per questo i maestri del Talmud insegnarono che, anche nella preghiera, l’uomo imita Dio. In Berakhot 7a anche Dio prega e supplica Se stesso di saper equilibrare rigore e misericordia, più precisamente di vincere il rigore con la misericordia, di temperare la norma con un’interpretazione benevola. Altrove si legge che Dio indossa i tefillin… Riportando gli atti rituali nella sfera dell’imitatio Dei, si evitano le derive miracolistico-magiche sia della teurgia sia della magia.

Massimo Giuliani

(4 aprile 2019)