Radici e radicalismi
Quali sono le principali caratteristiche della destra radicale oggi? Essa sussiste senz’altro come arcipelago di gruppi variamente articolati, sospesi tra l’essere partito politico, aggregazioni continuative a sfondo sociale, movimenti più o meno effimeri. Attraverso questo microuniverso di soggetti in mutamento, ha quindi rinegoziato con se stessa i suoi presupposti culturali, ideologici e politici. Oggi, la destra radicale si dà essenzialmente come tentativo di risposta ai processi di globalizzazione, di cui ne denuncia la logica omologante. Lo fa sollecitando, nelle società in crisi di ruolo e funzioni, il bisogno di recuperare una dimensione comunitaria, su base etnica, basata sul riordino dei due assi spiazzati dalle crisi indotte dalla «mondializzazione», lo spazio e il tempo. Il primo di essi è abbandonato a sé dalle élite e recuperato dalla destra radicale attraverso la sua presenza radicata nel territorio. Al secondo, il tempo accelerato e polverizzato clamorosamente dai mutamenti tecnologici in corso, è contrapposta una prospettiva possibile, quella della restaurazione di un ordine di senso su base rigorosamente gerarchica e verticale. Si tratta di dare vita, dal caos delle contaminazioni, ad un nuovo ordine. Il social housing di CasaPound si ridisegna su queste coordinate, ben sapendo che l’appello politico è in se stesso oramai del tutto insufficiente in tempi di “società liquida”. Il pensare la destra radicale esclusivamente come area politica, o comunque come spazio della politica, di prassi induce a ricondurne i contorni e il perimetro all’interno dell’universo neofascista e, per estensione, a quello neonazista. C’è molto di ciò, in effetti. Ma la nozione medesima di destra radicale, con le trasformazioni intervenute nel campo della politica, è decisamente più composita. Si pensi, ad esempio, alla pervasività del fenomeno populista, alla sua grande rilevanza nell’età che stiamo vivendo, per più aspetti alla sua irriducibilità rispetto a categorie, concetti e pensieri maggiormente rodati. Nel populismo, infatti, precipitano esperienze concrete e significati ideologici tra di loro anche conflittuali, tenuti insieme dal rimando al «popolo» come entità dotata di una sovranità assoluta, diretta, immediata, capace di esprimere una volontà massificata, unificata, onnisciente, unidirezionale, a tratti quasi mistica. Una mistica «del e per il popolo», quindi, di cui già un Mussolini, a suo tempo, nel fare l’elogio dell’«Italia proletaria», capace di contrapporsi energicamente alle «demoplutocrazie», si riteneva depositario. Per buona parte della destra radicale il termine medesimo di popolo rinvia, quanto meno implicitamente, ad un’unità organica di individui etnicamente omogenei. Il populismo comunitario è un’interessante sintesi di questo trend sociopolitico. Il quale, peraltro, si alimenta della specularità tra crisi degli ordinamenti democratici, fatto che si sta verificando un po’ in tutti i paesi a sviluppo avanzato, e loro sostituzione con forme di rappresentanza degli interessi e della collettività attraverso identità “popolari”, che non rinviano ad appartenenze di ceto o di classe ma ad una sorta di comunione degli indistinti, raccolta dalle rivendicazioni di formazioni politiche che nutrono una visione totalitaria dell’azione politica. In essa non c’è conflitto e mediazione ma solo distruzione del nemico, ossia di chiunque non sia identico all’idea che si nutre di se stessi. La centralità del discorso sul mito, in questo caso, è indiscutibile: il mito delle origini, il mito delle tradizioni, il mito dell’identità, il mito dell’unità organica. L’esistenza, quindi, come realizzazione del mito attraverso il sodalizio degli identici. La destra radicale da sempre si è andata facendo aedo e vessillifero della centralità del «politico» – inteso come sfera di realizzazione della dimensione spirituale, organicista e gerarchica della società – di contro alla gratuita brutalità della sfera economica e materiale, di cui la democrazia, come governo della mediocrità, costituirebbe un punto di non ritorno. Enfatizzando quindi la vittoria del primo sulla seconda, si investiva del carattere di portatrice di utopia a venire. Il mutamento in corso a tutt’oggi apre ad inedite possibilità di intervento politico. Il discorso etno-differenzialista, la socialità comunitarista di contro al senso vertiginoso di perdita dei confini che la globalizzazione induce in molti, la difesa dello spazio come del luogo non solo di una tradizione identitaria ma di una più generale comunione tra identici, sono diventati snodi strategici nella riformulazione di una posizione d’intervento politico diretto. Anche da ciò si dipana il tessuto ideologico e simbolico della nuova destra radicale, con le sue articolazioni a rete, a volte ancorando e incorporando anche significati e posizioni tra di loro in conflitto se non antitetiche: sovranismo e comunitarismo identitario; anti-signoraggio bancario e finanziario; nazionalismo e «piccole patrie»; tradizionalismo e religiosità acritica, fondata sulla «guerra dei simboli»; rifiuto dell’immigrazione in quanto atto d’«invasione»; ossessione per il controllo sessuale (rapporti intimi e relazioni sociali tra soli omologhi); riduzione del discorso politico a richiamo emotivo (sulla scia già tracciata, a suo tempo, da Mussolini); elitismo (il governo non degli eletti ma dei prescelti dallo «Spirito») coniugato a populismo (appello al popolo come massa indistinta, alla quale richiamarsi per accreditarsi come sua esclusiva espressione politica); ma anche il socialismo nazionalista; l’interventismo e l’elogio dell’atto di forza; il rifiuto radicale dell’islamismo politico oppure, in specularità rovesciata, l’identificazione integrale in esso, soprattutto nella sua versione sciita e in quella jihadista. Da ultimo, un’irrisolta tensione tra il rimando alla statolatria tipica del vecchio fascismo e il sogno di un «impero» continentale, quest’ultimo debitore del nazionalsocialismo. Una tale intelaiatura di suggestioni si rivolge, non a caso, ad una pluralità di destinatari. La triade composta dal populismo, dal comunitarismo e dall’identitarismo dichiara di volere difendere, a spada tratta, la dignità dei nuovi oppressi, tali perché espropriati prima di tutto del diritto a mantenere e a coltivare la propria specifica identità. All’anarchia del presente, alla sua opacità, alle insopportabili iniquità che lo connotano, elementi funzionali all’ingiusto arricchimento dei pochi, si contrapporrebbe quindi la possibilità di tornare ad un mondo migliore, dove le distinzioni tra giusti e ingiusto, tra superiore e inferiore, tra morale e corrotto, tra sano e insalubre verrebbero così ripristinate. Il condimento di questo modo di vedere le cose, che riesce in parte a dare forma alla crisi di significato che la globalizzazione innesca è ancora una volta la nostalgia per un passato che dovrebbe invece essere ripristinato integralmente. Il passato dove, per l’appunto, vigeva un equilibrio tra le parti poiché ognuna di esse «stava al suo posto». Una sorta di corrispondenza di questa ad un’unità organica, ad un unico centro, di contro al tempo corrente, quello del conflitto senza mediazione, della sopraffazione, della distruzione. Immagine nel suo complesso suadente, seducente, in grado di lenire il senso della deprivazione e che offre una specie di piccolo risarcimento morale, magari da spendere come bonus in politica. Va riconosciuto che si ha a che fare, oggi più che mai, con una destra radicale che è passata da posizioni di mera restaurazione o conservazione (ovvero, come si sarebbe detto un tempo, di collocazione «reazionaria») a soggetto in costante movimento, che ambisce a mobilitare una parte delle collettività non solo sul piano politico ma anche e soprattutto sociale. Quest’area registra, a modo suo, la crisi della “vecchia” politica e della rappresentanza democratica, ossia la loro subalternità rispetto a quei processi decisionali che oggi contano più che mai nel determinare prosperità o declino delle comunità umane. Se la democrazia si riduce a «governance» e se l’esercizio di questa è delegato, nei fatti, a organismi e soggetti che non sono il prodotto di un processo partecipativo bensì di un’auto-attribuzione di potere da parte di gruppi d’interesse corporati, il vuoto di rappresenta reclama d’essere in qualche modo colmato. Così facendo, il radicalismo politico si rivolge a quelle ampie parti di società che si sentono abbandonate a se stesse, dicendo loro: «sarò io a rappresentarvi dinanzi all’indifferenza delle élite traditrici e defezioniste». Non è un caso se la polemica “antiborghese” (i ricchi parassiti, che si ingrassano ai danni del popolo, anzi, della «nazione», la quale sarebbe la verace depositaria interclassista dei più autentici valori della «stirpe») abbia da tempo ripreso pieno vigore nel neofascismo. Il quale, da sostegno per «maggioranze silenziose» iperconservatrici, espressione del comune sentire di una parte del ceto medio dei decenni trascorsi, ha ora invece di nuovo rivestito i panni del plebeismo. Questa destra radicale ambisce in qualche modo a rappresentare il territorio sociale dell’esclusione, ossia gli individui che si trovano ancorati ad esso e che lamentano la loro marginalizzazione dai processi di cambiamento in atto. Lo fa indicandogli delle cause di disagio immediatamente condivisibili: immigrazione, «poteri forti», furto del lavoro e del territorio, complotti e così via. La forza del radicalismo di destra, infatti, è direttamente proporzionale alla crisi della democrazia sociale. Più indietreggia la seconda, maggiori sono gli spazi per il primo, presentandosi come falsa risposta a problemi e disagi invece reali e diffusi. Così è stato nel passato, così sarà ancora per i tempi a venire.
Claudio Vercelli
(da «Neofascismi», Torino 2018)