Gli ebrei e il danaro

kasamCi provò Jacques Attali diciassette anni fa, a sfatare il pregiudizio dell’attaccamento degli ebrei al danaro. Il suo ponderoso saggio “Les juifs, le monde et l’argent”, edito da Fayard nel 2002 e tradotto in italiano per i tipi di Argo (“Gli ebrei, il mondo e il danaro: storia economica del popolo ebraico”, 2003, 590 pg) può essere ancora acquistato sul web. Ben articolato e brillante, come tutti i libri di Attali, rintraccia le radici del mito negativo che tanto ha pesato nella vita degli ebrei lungo i secoli, dipanando il filo giallo che va da Traiano a Costantino, dai Vangeli ai Protocolli, passando per Lutero, Marlowe, Voltaire, fino al Main Kampf e a Internet.
Ma nonostante le recensioni entusiastiche, il trattato è rimasto un prodotto di élite e ben poco ha influito sull’immaginario popolare.
Ci riprova oggi una mostra a Londra allestita presso il Jewish Museum che rimarrà aperta fino al 7 luglio. Da non perdere, alla faccia di Brexit. Il New York Times le ha dedicato la prima pagina venerdì scorso con un ampio approfondimento in seconda. La mostra esplora gli stereotipi che collegano gli ebrei all’attaccamento smodato al danaro lungo 2000 anni di storia, con dipinti, tra cui il prezioso e raramente esposto “Giuda che restituisce i trenta danari” di Rembrandt, oggetti appartenuti ad ebrei londinesi (monete medioevali, bastoncini che servivano a tener conto dei prestiti, utensili), libri per bambini, figurine, giochi di società come il New and Fashionable Game of the Jew, con al centro un sornione ebreo con turbante che conta monete d’oro. Era popolarissimo nel 1800. E poi caricature, giornali, definizioni nei dizionari (nella prima sala l’Oxford del 1933 che elenca tra i sinonimi di ebreo il verbo imbrogliare) e opere letterarie, come il Mercante di Venezia di Shakespeare o Oliver Twist di Dickens, fino a tutta la propaganda fascista e nazista. E soprattutto analizza le radici teologiche dell’associazione tra gli ebrei e il danaro; i miti e la realtà dell’usura medioevale, il ruolo –vero o presunto – degli ebrei nel commercio, nel capitalismo e nella finanza fino ai nostri giorni e l’importanza della tzedakà, la beneficenza, che letteralmente significa giustizia ed è un precetto fondamentale nella religione e nella cultura ebraica.
Difficile rintracciare le radici dello stereotipo dell’attaccamento degli ebrei al danaro, che è così radicato nell’immaginario collettivo da avere la meglio su ogni paradosso. Per esempio quello che da un lato deride gli ebrei come miserabili accattoni o li addita come pericolosi sovversivi comunisti, dall’altro li condanna come manipolatori del potere economico mondiale, guerrafondai e subdoli nemici dell’umanità, la famosa giudoplutocrazia evocata anche agli albori del M5S in un blog di Roberto Casaleggio “noi del m5S siamo contrari alla giudoplutocrazia dell’Unione monetaria..” Fantasma che riappare in Inghilterra durante la Brexit, con una campagna contro Soros e i Rothschild, colpevoli, secondo molti brexiters, di diffondere fake news attraverso i media da loro controllati. L’Inghilterra vive un momento drammatico di antisemitismo, che serpeggia nella sinistra antieuropea e ha provocato l’espulsione di una dozzina di membri all’interno del Labour party nell’ultimo anno e l’apertura di 673 inchieste su episodi di antisemitismo nel partito. Una situazione che si riflette nella società inglese: nel 2018 gli episodi di violenza antisemita sono stati 1.632, il 16% in più dell’anno precedente, come riporta il New York Times, che cita anche l’inchiesta condotta in 12 Paesi dal FRA, l’agenzia dei diritti umani dell’Unione Europea, dalla quale risulta che ovunque gli atti antisemiti sono dappertutto in ascesa, in Francia addirittura del 74% nell’ultimo anno.
Può una mostra di questo tipo servire a combattere l’antisemitismo e a sfatare gli stereotipi? O non rischia al contrario di radicarli ancor di più nei visitatori che nutrono anche inconsciamente pregiudizi e non hanno i mezzi culturali per elaborare le immagini e i documenti esposti?
Il rischio c’è, e ne è consapevole al direttrice del museo, Abigail Morris, che già nel 2015 aveva allestito una mostra molto controversa, sul sangue nella religione e nella cultura ebraica. Ma, anche considerando l’attuale esplosione di antisemitismo in tutto il mondo, ritiene sia meglio non nascondere la testa sotto la sabbia e andare dritto al cuore del problema. Nella speranza che le prove tangibili della pretestuosità delle accuse creino almeno il dubbio in chi non è così prevenuto da risultare impermeabile anche l’evidenza.
La mostra non si limita a esporre opere del passato. La curatrice ha commissionato ad artisti contemporanei delle opere originali sul tema. Un vero colpo allo stomaco è il video dell’artista concettuale britannico Jeremy Deller, noto internazionalmente per avere partecipato alla Biennale di Venezia per aver vinto nel 2004 il prestigioso Turner Award. Deller ha creato un video che raccoglie clips di propaganda antisemita realizzati negli Stati Uniti e in Europa: cartoni animati, prediche di televangelisti, discorsi presidenziali, pubblicità di campagne politiche.. hanno tutti in comune riferimenti più o meno espliciti al rapporto degli ebrei con il danaro. Si vedono anche i sostenitori della Brexit che manifestano davanti al Parlamento inglese con cartelli che equiparano George Soros e i Rothschild all’Unione Europea, responsabile delle difficoltà economiche e lavorative degli inglesi. E c’è ovviamente il murales che apparve nel 2012 nell’East End di Londra, con sei anziani finanzieri ebrei seduti intorno a una tavola di Monopoli dispiegata sulle spalle di schiavi nudi. Quando il murales fu rimosso dalle autorità locali, si levarono parecchie proteste, tra cui quella di Jeremy Corbyn , che offrì poi maldestramente le sue scuse, sostenendo che non aveva ben esaminato l’immagine da vicino..
“Come Museo dedicato alla storia e alla cultura degli ebrei in Inghilterra, credo che sia nostro compito offrire uno spazio sicuro per esaminare e mettere in questione gli stereotipi, per combattere l’odio e sfidare l’ignoranza. Vogliamo esaminare come questi pericolosi, spesso addirittura mortali stereotipi sono nati e continuano a proliferare. Ci auguriamo che la mostra scuota le coscienza e apra il dibattito” conclude Abigail Morris.

Viviana Kasam

(8 aprile 2019)