Finalmente è finita
9 aprile, elezioni in Israele. Comunque sarà andata, sarà finita. Ognuno interpreterà e commenterà i risultati come crede, ma non avremo più la campagna elettorale. Una campagna che si è distinta per la sua bassezza, con un costante attacco personale e una quasi assoluta assenza di contenuti. Non sono rimaste immuni le istituzioni, non certo le persone, nemmeno i morti. Tutto è sembrato lecito ai protagonisti pur di guadagnare punti. “Nell’epoca che precede il messia, la sfrontatezza aumenterà” (TB Sotà 49b) sembra aver soppiantato l’altrettanto escatologica espressione “inizio del germogliare della nostra redenzione” che si usa nella preghiera per lo Stato di Israele: quest’ultima cerca di forzare l’assunto che viviamo alla vigilia dell’epoca messianica, ma lo fa con pudore, perfino con un minimo di esitazione. Qualità che la politica contemporanea stronca come deboli, inaccettabili. Dovremmo forse tornare con i piedi per terra, ricordando come Maimonide ammonisce contro il rischio di addentrarsi in speculazioni su come sarà l’era messianica, speculazioni che “non portano né a timore né a amore [del Cielo]” (Hilkhòt Melakhìm, 12:2) e che il desiderio di una tale era è solo finalizzato al potersi dedicare “alla Torà e alla sapienza” (ivi, 4).
Come rialzarsi dal livello così basso a cui siamo arrivati? Difficile. Difficile prima di tutto perché a larghissime fasce della popolazione va bene così; tantissime persone non vedono perché l’insulto e la prepotenza siano un problema… forse il recupero di alcuni formalismi, di un minimo cerimoniale, potrebbe giovare. La forma può aiutare il ritorno a un certo rispetto, auspicabilmente anche sostanziale. Cosa infatti più del seder di Pesach a cui ci stiamo avvicinando riflette l’utilità del rispetto formale di codici e norme? Dovremmo prenderne esempio per la nostra quotidianità.
Michael Ascoli, rabbino