Babij Jar

baldacciCome tanti altri, ho sentito parlare per la prima volta di Babij Jar leggendo la traduzione italiana della famosa poesia di Evgenij Evtušenko, quella che comincia appunto con il verso “Non c’è un monumento a Babij Jar”. Evtušenko lamentava che nessun monumento, nessun segno ricordasse che nel burrone alla periferia di Kiev erano stati assassinati in pochi giorni, nell’estate 1941, quasi 35.000 ebrei. Non si trattava di una dimenticanza, era l’effetto dell’antisemitismo di Stato che flagellò l’URSS dal 1948 al 1953; ma ancora nel settembre 1961, in piena età kruscioviana, evidentemente il tabù permaneva, se Evtušenko sentì il bisogno di elevare il suo grido. Nella sua poesia non si limitava a sottolineare la mancanza di un monumento nel luogo dell’eccidio: con accenti commossi affermava di sentirsi vecchio come il popolo ebraico, di identificarsi con Dreyfus, di essere come un bimbo di Byalistok, di sentirsi come Anna Frank.
Quanto fosse fragile la destalinizzazione voluta da Krusciov lo si sarebbe capito qualche anno dopo, quando il leader ucraino fu rovesciato da una congiura di palazzo che vide, alla fine, emergere, il neostalinismo di Brežnev. Ma in quel momento la poesia di Evtušenko sembrava segnare proprio una svolta, in Russia (dove apparve sulla rivista “Liternaturnaia Gazeta” nel settembre 1961) ma anche in Italia, perché, se la memoria non mi inganna, la traduzione fu pubblicata su “Il Contemporaneo”, il supplemento letterario di “Rinascita”, la rivista del PCI che era allora ancora settimanale di grande formato. Anche questo sembrava un segno del mutamento dei tempi, e invece….
Anche se gli fu consentito di pubblicare la poesia, Evtušenko fu subito criticato con la motivazione che aveva parlato solo degli ebrei massacrati, mentre nel burrone alla periferia di Kiev erano stati uccisi nel tempo anche funzionari sovietici, membri del Partito, prigionieri di guerra e altre categorie invise ai nazisti. Già, perché lo scandalo del silenzio su Babij Jar voluto dal potere sovietico stava proprio in questo: gli ebrei (come gli altri prigionieri) erano stati sterminati dai nazisti, non dai sovietici; non si trattava di un caso simile a quello di Katyn , non si trattava di nascondere un eccidio compiuto dai sovietici e attribuito ai nazisti, come a Katyn, ma di nascondere proprio un eccidio nazista, perché non si voleva comunque sottolineare troppo le persecuzioni a cui erano stati sottoposti gli ebrei. A tal punto era giunto l’antisemitismo nell’URSS durante il periodo staliniano!
Anatolj Kuznecov non aveva bisogno della poesia di Evtušenko per sapere di Babij Jar e nemmeno della Sinfonia n.13 di Dmitri Śostakoviċ, composta nel 1962 e dedicata appunto al luogo dei massacri: una sinfonia non ha parole e la musica poteva riferirsi indifferentemente al primo come agli eccidi successivi. Aveva assistito direttamente, da bambino, a quell’eccidio e a tutto quello che era avvenuto a Kiev dal momento dell’attacco tedesco all’URSS nel giugno 1941 fino alla ritirata nazista nel novembre 1944. E tuttavia anche per lui la poesia di Evtušenko costituì lo stimolo per uscire dal silenzio e per scrivere, nel 1965, il suo “romanzo-documento”, come egli stesso lo definisce, portandolo alla rivista «Junost’» («Gioventù») per la pubblicazione.
Quello che accadde a partire da quel momento lo racconta lo stesso Kuznecov nell’introduzione “Ai lettori”. Per chi ha letto il libro e si è reso conto della sua violenta carica antisovietica può stupire che l’autore non venisse subito arrestato e inviato in qualche gulag. Ma in quel momento la restaurazione brezneviana non era ancora pienamente in atto e il manoscritto conobbe una sorte singolare: non fu pubblicato ma nemmeno respinto: fu inviato – come spesso accadeva nel sistema sovietico, dove nessuno voleva prendersi responsabilità definitive – alle “istanze superiori” per una decisione, finché non finì nelle mani dello stesso Suslov, che ancora dominava incontrastato sulla cultura sovietica. Suslov decretò che il manoscritto poteva essere pubblicato purché ne fossero espunte tutte le parti nelle quali – con un linguaggio estremamente esplicito – si scagliava contro il potere sovietico. Ne risultava un testo totalmente stravolto, dove i “cattivi” erano solo i nazisti, e dove i sovietici apparivano solo alla fine come liberatori. Kuznecov rifiutò di pubblicare il testo così mutilato ma si trovò di fronte a un’obiezione tipicamente sovietica: il manoscritto, una volta consegnato, non gli apparteneva più, era di proprietà del potere sovietico; e infatti, così mutilato e stravolto, fu pubblicato su «Junost’» nel 1966. La vicenda non si chiuse così solo perché Kuznecov riuscì a fuggire in Occidente e nel 1970 pubblicò a Londra il testo integrale di “Babjj Jar”. L’editore italiano (Adelphi, che pubblica oggi il libro, quasi mezzo secolo dopo la sua uscita a Londra) ha fatto un’operazione molto appropriata: ha evidenziato – con segni leggerissimi che non disturbano la lettura – le parti espunte nell’edizione del 1966 e anche quelle che l’autore ha aggiunto in quella nel 1970. Il lettore può così rendersi conto pienamente di quali fossero i criteri con i quali il potere sovietico interveniva per censurare un’opera sgradita.
Se questa è la storia dell’opera, quali sono oggi le nostre chiavi di lettura? Intanto c’è da dire che “Babij Jar” non è, in senso proprio, un’autobiografia ma, come sottolinea l’autore, un “romanzo-documento”. Kuznecov si identifica sì nella figura narrante, ma narra trasfigurandole non solo le vicende a cui lui stesso ha assistito in prima persona, ma anche quelle che gli sono state raccontate da amici e da parenti oppure tratte dai documenti storici, tanto che al “Capitolo di ricordi” segue il “Capitolo di documenti originali”, un capitolo che si ripeterà di nuovo. La sua ideologia di base è un pacifismo radicale, espresso attraverso sentimenti forti, senza sfumature: odia la guerra (e non potrebbe essere altrimenti), odia la politica, che identifica non solo con la guerra ma anche con il potere sovietico.
Ecco, il potere sovietico è il vero protagonista negativo dell’opera di Kuznecov, più degli stessi nazisti, che inizialmente erano stati accolti dalla maggioranza della popolazione ucraina come liberatori, anche se ben presto rivelarono il loro volto feroce. Questo odio contro il potere sovietico non emerge tanto dalla figura del giovane protagonista – che anzi mostra quasi il volto di un piccolo patriota, che conserva nascosta fino all’arrivo delle truppe sovietiche una bandiera rossa – quanto dalle parole degli altri personaggi, che hanno ancora ben fissa nella memoria la terribile esperienza della collettivizzazione delle terre che avevano vissuto pochi anni prima, con i milioni di morti per fame, con gli atroci episodi di cannibalismo, che si ripetono negli anni dell’occupazione nazista, e che Kuznecov racconta con crudo realismo. E dopo la collettivizzazione, l’atmosfera di sospetto e di paura che è presente ogni giorno nella vita quotidiana. Una volta di più si dimostra che un’opera letteraria può essere più efficace di tanti lavori storiografici nel restituire l’atmosfera, il senso della vita quotidiana, sia durante l’occupazione tedesca sia, e forse ancor più quando viene evocato il periodo della collettivizzazione, dove appaiono figure di contadini che preferiscono lasciarsi andare, smettere di lavorare, morire di fame, piuttosto che farsi inquadrare nei kolkhoz.
Nei terribili tre anni e mezzo di occupazione tedesca il burrone di Babij Jar è sempre lì, evocato come minaccia e spesso usato come luogo dove far scomparire tutti coloro che i nazisti volevano eliminare. Ma forse ancora più tragica, e certamente più grottesca, è la vicenda del tentativo sovietico di far “scomparire” Babij Jar, dapprima con il silenzio, poi con un’opera di vera e propria rimozione fisica, attuata con la sommersione dell’intero burrone, per mezzo della costruzione di una diga e la formazione di un lago di fango che avrebbe dovuto far scomparire ogni traccia di tutti i resti umani che si erano stratificati nel fondo del burrone. Apocalittica è la descrizione del crollo della diga il 13 marzo 1961, l’esondazione del lago, l’irruzione dell’ondata di fango che travolse un intero quartiere di Kiev uccidendo un numero imprecisato di persone. Ma nonostante questo disastro l’accanimento sovietico contro Babij Yar proseguì, fino ad arrivare alla cancellazione del cimitero ebraico dove erano stati tumulati i resti che erano stati recuperati. I bulldozer divelsero tombe e lastre, rivoltando ossa e bare di zinco: nello spazio così ottenuto fu costruita la nuova sede degli impianti televisivi e progettata la costruzione del nuovo stadio. Nonostante tutto questo, Kuznecov racconta che il 29 settembre 1966, nel venticinquesimo anniversario del primo eccidio, nel luogo affluì un numero impressionante di persone e molti presero la parola e tra questi Victor Nekrasov, lo scrittore che era stato uno dei protagonisti dell’illusorio “disgelo” kruscioviano. Anche in questo caso si parlò del monumento, ma fu necessario attendere il 1976 perché esso fosse finalmente eretto. In realtà si trattò quasi di una beffa. Conformemente all’ideologia neostalinista dominante in età brežneviana, il monumento fu costruito nello stile tipico della scultura sovietica: rappresentava un soldato dell’Armata Rossa in posa eroica e portava una scritta che ricordava l’eccidio dei “cittadini sovietici durante la temporanea occupazione nazifascista 1941-1943”. Non una parola sugli ebrei trucidati. In realtà in URSS non si parlò degli ebrei uccisi a Babij Jar fino al periodo della Perestrojka.

Valentino Baldacci