Batià, figlia del Signore
Ricordate, non sono soltanto la figlia del Faraone: salvando il bambino dal fiume e dandogli il nome con cui è stato scritto, ho avuto anch’io diritto ad un nome, il mio: Batià, figlia del Signore. Per il Signore, mi sono lavata dall’idolatria, ed ho lasciato alle spalle la violenta casa paterna, per Lui. Non ho esitato a sfidare il potere superbo e malvagio per salvare dalle acque un bambino destinato a perirvi; per il bambino, sono riuscita a non prestare ascolto alle ancelle che mi esortavano a non trasgredire le leggi paterne, e così alla voce suadente del male che tentava di impossessarsi di me. Il bambino ho condotto in casa e cresciuto come se fosse mio, ben consapevole del suo essere straniero in terra straniera. Per lui, e per il Signore, sono diventata straniera in patria io stessa e ho scelto di essere una figlia d’Israele.
Così, il Signore mi ha salvato dalla morte dei primogeniti, per lasciare poi Mitzraim ed unirmi ad Am Israel. Di me posso dirvi che sono entrata nel Gan Eden ancora in vita. Ma come ho vissuto prima, tutto questo non è raccontato.
Gli anni d’infanzia, coccolata e viziata senza che mi sentissi davvero a mio agio. Il doloroso emergere della consapevolezza di trovarmi nel luogo sbagliato, a idolatrare divinità sbagliate. Il riscatto che quel bambino mi ha offerto. L’inizio di una vita nuova, insieme ad un nuovo popolo che pur vessato resisteva con dignità e fermezza. Questa, ho pensato, sarà la mia gente. La mostruosa forza della libertà, dopo tanti anni sprecati a vivere un’esistenza errata.
Il quinto bicchiere che lasciate intatto sul vostro desco durante il Seder, in attesa di Elia che forse lo berrà con l’unione degli esiliati nell’Olam HaBa, dedicatelo anche a me.
(Rifka Elitzur, Dai padri ai figli, DAC 1982, midrash 67; Shemot Rabbà 1, 26; Vaikrà Rabbà 1,3; Talmud Bavlì, Meghillà 13a e Sotà 12b)
Sara Valentina Di Palma