Democrazia e definizioni
Non c’è parola del lessico – non solo politico – che sia stata più aggettivata di “democrazia”: democrazia diretta contrapposta a democrazia rappresentativa, democrazia sostanziale contrapposta a democrazia formale, e poi democrazia liberale, democrazia parlamentare, democrazia popolare, democrazia socialista, democrazia progressiva, e, ancora, democrazia autoritaria, democrazia illiberale… E poi anche i partiti: Democrazia cristiana, Democrazia proletaria…
Il grande politologo Giovanni Sartori – nella sua prima opera di rilievo (ma prima ancora nelle sue lezioni al “Cesare Alfieri”, alla metà degli anni ‘50) che intitolò appunto “Democrazia e definizioni” – si faceva beffe soprattutto dell’espressione “democrazia popolare”, che era usata allora per designare i regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Democrazia, argomentava Sartori, vuol dire “potere del popolo”, e quindi parlare di “democrazia popolare” significa parlare di “democrazia del popolo del popolo”, cioè mettere insieme una sorta di balbettio di nessun significato.
In realtà l’insistenza della cultura di ispirazione comunista nel voler aggettivare la parola “democrazia” metteva in evidenza il disagio di quella cultura nell’uso di un termine che da un lato non si voleva assumere come tale perché rappresentativo del sistema politico che si voleva combattere, quello in vigore in Occidente, ma di cui d’altra parte non si voleva lasciare il monopolio al campo avverso, dato il prestigio che esso aveva acquisito nel corso della II guerra mondiale, quando si parlava di conflitto tra democrazie e totalitarismi. Da ciò l’uso di un termine come “democrazia popolare”, ma anche di quello di “democrazia progressiva”. Anche la contrapposizione di “democrazia sostanziale” a “democrazia formale” aveva la stessa origine e lo stesso scopo, anche se era maggiormente usata, nell’ambito della sinistra, dalla cultura socialista.
In tempi più recenti ha avuto ed ha fortuna la contrapposizione tra “democrazia diretta” e “democrazia rappresentativa”. A ben pensarci, anche questa coppia, come quelle citate, rimanda alla vera contrapposizione di fondo, che è quella nei confronti della “democrazia liberale” (o liberaldemocrazia), cioè la forma predominante che hanno assunto i sistemi politici in Occidente. Un’espressione, anche questa, abbastanza discutibile, perché accoppia due termini che storicamente si erano contrapposti, per lo meno per un secolo e mezzo circa, “liberalismo” e “democrazia”, che a loro volta erano figli di una sottolineatura più o meno forte di uno o dell’altro dei due termini fondamentali della triade rivoluzionaria, “liberté – égalité – fraternité”, dove il terzo (la “fraternité”) è sempre rimasto un po’ in ombra, come capita spesso alle varie forme di trinità.
Per comprendere il senso della contrapposizione tra liberalismo e democrazia bisogna tornare alle origini, ai due ispiratori originari della divaricazione: Montesquieu e Rousseau. Per semplificare, si può dire che all’origine del pensiero di Montesquieu sta la preoccupazione di limitare il potere di ogni corpo dello Stato (nella fase storica in cui agiva l’autore dello “Spirito delle leggi”, soprattutto quello del Re) e quindi di dividerlo. Da qui ha origine la teoria della divisione dei poteri. Una delle preoccupazioni principali del tempo era quella relativa agli arresti arbitrari ordinati dal re e non è certo un caso che la Rivoluzione ebbe il suo punto d’avvio con l’assalto alla Bastiglia, vale a dire un carcere per i prigionieri politici. Si può dire perciò che all’origine del pensiero di Montesquieu – come di molti altri suoi contemporanei – c’era, accanto alla preoccupazione di limitare il potere arbitrario del sovrano – la volontà di garantire l’autonomia del potere giudiziario, a quel tempo ancora affidato ai Parlamenti, composti dalla nobiltà di toga, ma il cui potere era continuamente minacciato da quello del re.
In Rousseau le cose sono più semplici e soprattutto, fin dalle origini, più ideologiche: il potere deve appartenere al popolo e quindi è dal popolo che proviene ogni forma di legittimazione all’azione dei corpi dello Stato. Non solo non ha senso, per Rousseau, parlare di divisione dei poteri ma, anzi, la forma ideale di democrazia è quella esercitata direttamente dal popolo stesso, la democrazia diretta; se questa, per ragioni di numeri, non è possibile (ma non va dimenticato che la preferenza di Rousseau va alle piccola entità, dove è realmente possibile esercitare la democrazia diretta: da qui il suo amore per la costituzione ginevrina e il progetto di costituzione per la Corsica) allora si può ammettere una forma di rappresentanza che però sia costantemente sotto il diretto controllo del popolo che a ogni momento può revocare il mandato ai suoi rappresentanti: l’esempio più evidente di applicazione di questa idea è la Convenzione del 1793-1794.
Le vicende storiche hanno visto prevalere in Occidente – nel corso del XIX e del XX secolo – la teoria di Montesquieu, senza però che il suggestivo richiamo di Rousseau sia mai venuto meno. Anzi, si può dire che nel corso del XX secolo e della prima parte del XXI sempre più elementi democratici si siano inseriti nel modello liberale, tanto da giustificare oggi l’adozione del termine liberaldemocrazia, che originariamente poteva apparire un ossimoro.
A rigore, si può dire che solo in un grande Paese la teoria di Montesquieu continua a essere pienamente applicata: gli Stati Uniti d’America. Anzi, negli Stati Uniti, insieme alla tradizionale divisione dei tre poteri, è stata presente fin dalle origini un’altra forma di divisione del potere, quella legata al decentramento su base territoriale, in virtù della sua Costituzione federale che affida agli Stati molti poteri, sottraendoli così a quelli centrali, sia dell’Esecutivo, sia del Legislativo, sia del Giudiziario. In realtà, nonostante le polemiche che puntualmente si rinnovano, quello americano è il sistema istituzionale che funziona meglio, come è dimostrato anche dal fatto che si sono potute succedere due presidenze dall’indirizzo politico opposto come quelle di Obama e di Trump senza che il sistema sia stato scalfito. Ciò non dipende, ovviamente, solo dal modello istituzionale: il modello deve essere basato su un solido consenso e su un forte senso civico: lo stesso modello istituzionale degli USA è stato adottato, fin dal XIX secolo, anche dagli Stati dell’America latina e non si può dire che abbia prodotto gli stessi risultati.
In Europa il modello di Montesquieu non è mai stato applicato integralmente. Le vicende storiche hanno portato a diffidare di un Esecutivo troppo indipendente e perciò troppo forte e si è preferito quindi legarlo fortemente al Legislativo, che è diventato così il potere prevalente. Così prevalente da mettere a rischio l’indipendenza del terzo potere, quello giudiziario, come è avvenuto spesso in Francia, dove nel 1958 è entrata in vigore una Costituzione che, volendo conciliare esigenze troppo diverse, ha finito col tempo per mostrare le sue contraddizioni. In realtà la Costituzione della V Repubblica ha funzionato solo in virtù del carisma del suo creatore, il generale De Gaulle, e dei suoi immediati successori. Il tempo ne sta mettendo in evidenza le crepe, e in particolare, ripeto, non è mai stata in grado di garantire una reale indipendenza della Magistratura.
Il caso di Israele costituisce in un certo senso un ritorno al modello originario di Montesquieu con una sola correzione: poiché il problema non era quello (che esisteva anche per i nascenti Stati Uniti d’America) di limitare i poteri di un Re, il nodo fondamentale era quello di garantire l’indipendenza del potere giudiziario dal Governo e dal Parlamento: la breve ma significativa storia d’Israele dimostra che questo obiettivo è stato raggiunto, come dimostrano molti episodi, anche recenti o addirittura in corso.
Valentino Baldacci