Il significato di Pesach
“Questo è il pane dell’umiltà che mangiarono i nostri padri nella terra d’Egitto”.
Prima ancora di iniziare il pasto sabatico e festivo, questa sera, attorno alle nostre tavole imbandite, leggeremo la haggadà, iniziando proprio dal brano sopracitato. I maestri spiegano che il termine “lechem ‘oni – pane dell’umiltà” significhi anche “pane della risposta” in quanto il termine “‘oni – umiltà” deriverebbe dal verbo “la ‘anot – rispondere”.
Dobbiamo rispondere alle domande dei bimbi che, trovandosi davanti ad una così diversa serata, vogliono conoscerne le motivazioni. Per questo la Torà ci comanda di rispondere con pazienza ad ogni tipo di domanda, anche a quella apparentemente banale.
Colui che è umile è colui che si dispone a rispondere alle richieste fatte dal suo amico, da suo fratello, da suo figlio, dal suo discepolo.
La festa di Pesach è chiamata dalla tradizione rabbinica “zeman cherutenu – epoca della nostra liberazione”. L’uomo libero è colui che sa anche ascoltare l’altro e che con umiltà si dispone ad accogliere le sue opinioni, anche se diverse dalle proprie.
A differenza di ciò il “chamez – il cibo lievitato” proibito in questi otto giorni, simboleggia la violenza; è infatti il simbolo della supremazia di un uomo nei confronti del suo prossimo.
Allora, non possiamo altro che, almeno per questi otto giorni di Pesach, scrollarci di dosso ogni forma di chamez – materiale e morale – per affrontare una vita, migliore e poter tornare ad essere l’esempio fra i popoli, per una vita migliore.
Shabbat Shalom e pesach kasher ve sameach.
Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
Il rav ha inoltre trasmesso questo messaggio agli iscritti alla Comunità ebraica bolognese:
Cari amici, la festa di Pesach è ormai alle porte e in ogni casa ebraica ci si affanna per completare le pulizie preparandosi ad accogliere la festa nel migliore dei modi.
La festa di Pesach è chiamata “Chag ha aviv – la festa della primavera”, poiché, secondo ciò che ci racconta la Torà, il popolo ebraico è uscito dall’Egitto nel mese della primavera.
In uno dei salmi che recitiamo in uno dei giorni di Pesach, troviamo scritto:
“Mozzì assirim ba kosharot – Fa uscire i legati nella loro migliore condizione” dove il termine kosharot deriverebbe da kasher – idoneo.
Il talmud spiega che il Signore D-o, nella Sua grande misericordia ha scelto il periodo climatico migliore per far uscire il popolo; né l’estate per il troppo caldo, né l’inverno per il freddo e la pioggia.
È come per riconoscimento, oltre che per rispetto alle regole della halakhà, che ogni ebreo, anche quello più lontano dall’osservanza delle mitzvot, ha un atteggiamento particolare verso questa festa.
Non c’è ombra di dubbio che Pesach è la più grande fra tutte le feste del nostro calendario; il suo significato, nonché il suo alto valore etico e morale fanno di essa, l’elemento fondante per la vita sociale di un popolo in mezzo alla società.
Zeman cherutenu- Epoca della nostra libertà, così è chiamata nella letteratura rabbinica; la libertà è forse il bene più ambito da ogni essere vivente e non soltanto umano.
Ogni uomo tanto più, ha il diritto di essere libero; oggi questo è considerato un concetto fondamentale delle regole della vita sociale, non però in una società di tremila e duecento anni fa.
La schiavitù, la negazione di qualsiasi diritto umano, allo studio, al lavoro autonomo al rispetto delle proprie tradizioni storiche, religiose ecc. sono oggi considerati concetti fondamentali ad una vita moderna, cosa che all’epoca della schiavitù egizia non era contemplata che per pochi prescelti.
Ebbene il popolo ebraico ha combattuto allora e combatte oggi per il diritto a questi beni preziosi.
Libero è colui che desidera essere rispettato per ciò che è, per i sui principi e le sue idee e a sua volta è pronto a far così nei confronti di chi ha davanti.
Libero è colui che può liberamente osservare le sue tradizioni, senza ledere la suscettibilità dell’altro, usando rispetto ed educazione, permettendo anche all’altro di fare così.
Libero è chi può esprimere la sua opinione rispettando anche le altrui e disponendosi ad ascoltare le ragioni degli altri.
La libertà è qualcosa per cui, secoli dopo l’uscita dall’Egitto, gli uomini hanno offerto il proprio sangue e la propria vita per tenere alto questo principio inviolabile.
Durante gli otto giorni della festa, abbiamo il dovere di astenersi dal mangiare pane e cibi lievitati in memoria di quando, usciti dall’Egitto, gli ebrei non ebbero il tempo far lievitare l’impasto per farci il pane.
Il chametz non simboleggia soltanto il pane ma tutto ciò che ha a che fare con la schiavitù e la violenza: fisica e morale.
“Al tikré chametz ellà chamas- Non leggere chametz – lievito, ma chamas che significa violenza” tuonano i Maestri della Mishnà; il chametz simboleggia l’inacidirsi dell’indole umano, il gonfiarsi di orgoglio e l’esplodere nella violenza.
L’avvicinarsi della bella stagione – la primavera – porta l’uomo a riflettere con se stesso e maturare un processo di miglioramento e di disponibilità ed apertura verso l’esterno.
Le pulizie delle nostre abitazioni che prima della festa si fanno sempre più frenetiche, vogliono anche simboleggiare la nostra volontà di disfarsi di quell’acredine e di ogni sentimento di violenza che, con il buio della stagione invernale, si sono accumulate nelle parti più interne delle nostre abitazioni e quindi anche dentro di noi.
Poche ore prima dell’inizio della festa, faremo il biur chametz – bruciatura del chametz, in modo da disfarcene completamente, sia di quello materiale che di quello che si trova nel nostro animo.
Il popolo ebraico, prima di uscire dall’Egitto ha dovuto sostenere una prova di coraggio, assumendosi la responsabilità di popolo davanti agli egiziani e, soprattutto, dando prova di unità e identità davanti al Signore D-o.
La risposta che i Maestri della Mishnà ci indicano di dare al malvagio – uno dei quattro figli della haggadà, colui che si aliena dal popolo – chiedendo:
“ma avodà ha zot lakhem? – cosa state facendo?” È quella che, “se fosse stato schiavo in Egitto, non sarebbe uscito”, poiché non percepisce l’appartenenza al popolo.
Ogni ebreo è per natura legato al suo popolo, nel bene e nel male; la storia più volte ci ha insegnato che, se noi non ci sentiamo parte integrante del nostro popolo, saranno i nostri nemici a farlo con la violenza.
Cerchiamo allora di ricordare la nostra storia – anche quella di oltre tremila anni fa – per far tesoro di essa, traendone esperienza e insegnamento per i nostri figli.
Cerchiamo di eliminare quel chametz che sta nelle nostre case e dentro di noi, in modo da sentirci legati l’uno con l’altro, abbattendo ogni tipo di pregiudizio contro nostro fratello, figlio del nostro popolo che tanto, tanto male ci fa.
Facciamo in modo che la festa di Pesach che sta entrando con la sua primavera, spazzi definitivamente le nubi che oscurano e minacciano le nostre Comunità e il nostro Popolo.
Non ci vuole molto! Siamo già tanto odiati da abbastanza gente, non aggiungiamo anche il nostro odio: è quello che ci procura più male e sofferenza!
Pensiamo a guarire le nostre malattie prima di improntarci medici per gli altri; basterebbe molto poco.
Soltanto dopo un biur chametz onesto e veritiero, potremo uscire finalmente dall’Egitto, da quell’Egitto che nonostante i tremila duecento anni, ci tiene ancora legati a certi vincoli, come una morsa d’acciaio.
Possa il Signore D-o liberarci finalmente da ogni schiavitù, rendendoci meritevoli di uscire verso una libertà degna del nome che portiamo – Israel.
(19 aprile 2019)